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Giorgio Caproni
(✶1912   †1990)

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«Tonica, terza, quinta,
settima diminuita.
Resta dunque irrisolto
l'accordo della mia vita?»
(G. Caproni, Cadenza, 1972)

Giorgio Caproni (Livorno, 7 gennaio 1912 – Roma, 22 gennaio 1990) è stato un poeta, critico letterario e traduttore italiano.

Periodo livornese

Giorgio Caproni nasce a Livorno il 7 gennaio del 1912. È probabile che la famiglia Caproni abbia ascendenze germaniche e che un lontano parente, Bartolomeo Caproni, lo zi' Meo, fosse un “contadino e consulente linguistico” del Pascoli. Il padre di Giorgio, Attilio, figlio di un sarto che aveva fatto il garibaldino, era nato a Livorno e lavorava come ragioniere nella ditta dei Colombo, importatori di caffè: era un appassionato di musica “amava la Scienza con la S maiuscola. Il suo Dio, se così posso dire, era la Ragione, sempre con la R maiuscola. In materia di religione il suo atteggiamento era quello di un'assoluta indifferenza. La madre, Anna Picchi, “figlia di Gaetano Picchi, guardia doganale ed “ebanista” a tempo perso, e di Fosca Bettini, frequentò da ragazza il Magazzino Cigni, una delle case di moda allora in auge a Livorno […]. Fu donna d'ingegno fino e di fantasia, sarta e ricamatrice abilissima, suonatrice di chitarra, ecc. Amava molto frequentare i “circoli” e ballare”.

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Gli anni tra il 1915 e il 1921 sono “anni di lacrime e miseria nera”: “dopo il richiamo alle armi di mio padre […] capitombolammo in via Palestro, in coabitazione con la bellissima Italia Bagni nata Caproni e suo marito Pilade, massone e bestemmiatore di professione nonché barbiere dirimpetto allo Sbolci, arcifamoso fra gli scaricatori per i suoi fulminanti ponci al rhum”. Caproni impara a leggere da solo, a quattro anni, sulle pagine del “Corriere dei Piccoli”, frequenta l'Istituto del Sacro Cuore “dove feci la prima e la seconda elementare tra i mi rallegro di Suor Michelina, lei minacciandomi ogni volta di levarmi il distintivo di guardia d'onore”; “le suore mi riempivano di santini. Erano molto affettuose. Ma il buon Dio che cercavano di farmi amare passava su di me come l'acque su una pietra dura”. Frequenta la terza elementare alle comunali Gigante “dove il maestro Melosi, sadicamente, si divertiva a farmi piangere sul De Amicis”. Al termine della prima guerra mondiale la famiglia si trasferisce nella casa più grande di via de' Lardarelle. Proprio a proposito della guerra Caproni ha scritto “anni duri in cui non ancora decenne vidi ammazzare la gente per la strada”. Rievoca poi con nostalgia le passeggiate domenicali con il padre “Erano i tempi in cui mio padre Attilio, ragioniere, mi portava con mio fratello Pier Francesco agli Archi in aperta campagna, o – se d'estate – ai Trotta o ai famosi bagni Pancaldi, quando addirittura, un po' in treno e un po' in carrozza, non ci spingevamo fino a San Biagio nella tenuta di Cecco, allevatore e domatore di cavalli, bravissimo in groppa ai più focosi”. Col padre si reca al teatro degli Avvalorati dove vede Mascagni dirigere la Cavalleria Rusticana. È affascinato dai terni e sogna di fare il macchinista “con mio fratello trascorrevo ore, nei nostri liberi pomeriggi livornesi, sul cavalcavia nei pressi dell'acqua della Salute, gli occhi incantati sul rettifilo del binario dove, fra poco, o come per prodigio, sarebbe apparso il direttissimo delle 16 e 17 o il rapido (l'espresso, si diceva, allora) tutto vagoni-letto delle 19, che fascinosamente veniva chiamato Valigia delle Indie. A testimonianza di questa passione, un trenino elettrico Rivarossi resterà per sempre in bella vista nel suo studio e con i suoi allievi, a scuola, userà i trenini per farli imparare giocando. Precoci le prime letture “a Livorno, quando ancora facevo la seconda elementare, scoprii fra i libri di mio padre un'antologia dei cosiddetti Poeti delle origini (i Siciliani, i Toscani). Chissà perché mi misi a leggerli con gusto, insieme con il “Corriere dei piccoli)”. Risale a questi anni anche il primo incontro con la Commedia dantesca che il padre comprava a dispense in “edicola, nella edizione Nerbini di Firenze con le splendide illustrazioni di Doré”. È probabile che già a Livorno, Caproni abbia preso quello che chiama “il baco della letteratura” e abbia scritto il primo tentativo i racconto (“un racconto sul diavolo”, intitolato Leggenda montanina, ancora conservato fra le sue carte). Del suo carattere malinconico già mostratosi durante l'infanzia “ero un ragazzaccio, sempre in mezzo alle sassaiole, quando non me ne restavo incantato o imbambolato. Non ero molto allegro: tutto “mi metteva veleno” in partenza: mi noleggiavo per un'ora la barca o la bicicletta, e già vedevo quell'ora finita”. Ne soffrivo in anticipo la fine”.

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A proposito di Livorno scriverà: “esisterà sempre, finché esisto io, questa città, malata di spazio nella mia mente, col suo sapore di gelati nell'odor di pesce del Mercato Centrale lungo i Fossi e con l'illimitato asfalto del Voltone (un'ellisse contornata di panchine bianche e in mezzo due monumenti alle cui grate di ferro sul catrame io potevo vedere, sotto il piazzale immenso schiacciando ad esse il viso fino a sentire il sapore invernale del metallo l'acqua lucidamente nera transitata dai becolini pieni di seme di lino”.

Periodo genovese

1922-1929
Dopo la nascita della terza figlia, Marcella, nel marzo del 1922 i Caproni, dopo una breve sosta a La Spezia, si trasferiscono a Genova, dove il padre, rimasto senza lavoro in seguito al fallimento della sua ditta, era stato assunto dall'azienda conserviera Eugenio Cardini, con sede nel palazzo Doria. Ecco alcune delle parole scritte da Caproni per salutare la sua città natale: “Mentre l'ultima bandiera rossa s'ammainava in fiamme in via del Corallo, o lungo via del Riseccoli [oggi via Palestro] e viale Emilio Zola pieno di ghiande e di polvere, in carrozza me ne andai per sempre alla ferrovia. E da quel giorno Livorno non la rividi più, vidi per l'ultima volta dal finestrino i prati rigati dai sentieri fra il trifoglio quasi neri degli Archi e il camposanto dei Lupi, dove erano sotterra i miei nonni”. A Genova la famiglia Caproni abita in via S.Martino e poi in Via Michele Novaro, piazza Leopardi e via Bernardo Strozzi: "La città più mia, forse, è Genova. Là sono uscito dall'infanzia, là ho studiato, son cresciuto, ho sofferto, ho amato. Ogni pietra di Genova è legata alla mia storia di uomo. Questo e soltanto questo, forse, è il motivo del mio amore per Genova, assolutamente indipendente dai pregi in sé della città. Ed è per questo che da Genova, preferibilmente, i miei versi traggono i loro laterizi". Tra gli hobbies più curiosi coltivati in questi anni è da rilevare la passione per l'allevamento di piccoli rettili (tritoni, salamandre, lucertole). Finisce le elementari alla scuola Pier Maria Canevari e frequenta le complementari alla Regia Scuola Tecnica Antoniotto Usodimare, studiando contemporaneamente violino e composizione all'Istituto musicale Giuseppe Verdi, in Salita Santa Caterina (ottiene anche una medaglia d'oro per il solfeggio), dove si diploma nel 1925. Proprio studiando composizione Caproni racconta di avere scritto per la prima volta dei versi: "Da ragazzo studiavo armonia musicale, tentavo di comporre dei corali a quattro voci. Normalmente al tenore si affidano dei versi, che io attingevo dai classici più musicabili e piani, come Poliziano, Tasso o Rinuccini, finché un giorno mi accorsi che il mio maestro - questi versi - non li leggeva nemmeno. Da allora mi feci vincere dalla pigrizia e cominciai a scriverne di miei. È così che ho iniziato; poi il musicista è caduto ed è rimasto il paroliere, ma non è un caso che tutto questo sia accaduto a Genova, città di continua musicalità per il suo vento. Andavo al ponte dell'Alba, dove alla ringhiera ci sono dei dischi che fischiano una musica straordinariamente moderna. I miei versi sono nati in simbiosi con il vento". Tra le prime letture vanno annoverate Schopenhauer, Verne, Machado, Lorca e una passione per i film di Francesca Bertini.

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1930-1932
All'età di diciotto anni, Caproni abbandona le ambizioni di violinista, dopo aver molto faticato sul bellissimo violino Candi, prestatogli dal maestro Armando Fossa: «Ormai ero un giovanotto. Studiavo di giorno e la notte suonavo nell'orchestra di una balera. Le canzoni in voga erano "Noi che siamo le lucciole", "Adagio, Biagio"...Intendiamoci: suonavo anche nelle opere. Violino di prima fila. Tutti dicevano che avevo un brillante avvenire. Ma una sera, chiamato a sostituire il primo violino in un a solo della Thaïs di Jules Massenet, me la cavai abbastanza bene, però ebbi un'emozione tale che capii di non essere tagliato per quella professione. E a casa spezzai lo strumento. Avevo diciotto anni». Per quanto riguarda i suoi interessi letterari invece: "Fino a diciott'anni non sono stato che un solitario studente di violino, alle prese con l'Alare o il Mazas o il Kreutzer, e di letteratura altro non ho saputo che quella imparata a scuola o comprata sulle solite bancarelle. Non solo: ma anche quando mi decisi a sotterrare, per scrivere i primi versi, il piccolo feretro nero della mia prima illusione, amorosamente portato sotto il braccio per tanti anni, nemmeno allora mi introdussi nel cosiddetto mondo letterario, ammesso che a Genova ne esistesse, in quel torno di tempo, uno." I suoi amici abituali di allora sono il poeta e critico Tullio Cicciarelli, poi giornalista al «Lavoro», il futuro critico teatrale e regista Giannino Galloni, e soprattutto compagni di studio di violino (Ferdinando Forti, Adello Ciucci, con il quale compie molte letture). Scrive intanto, e copia a macchina la domenica nello «scagno» del padre in piazza della Commenda, le prime poesie, «vagamente surrealiste, o forse futuriste», influenzato dalle pagine dell'«Italia letteraria» («i versi furono per me il surrogato della musica tradita»). Si impiega presso lo studio dell'avvocato Colli, in via XX Settembre, dove scopre e sottrae l'Allegria di Ungaretti, «vero e proprio sillabario» poetico: «M'insegnava infatti a ritrovare in casa nostra il sapore perduto della grande - semplice - poesia parola per parola, silenzio per silenzio, e non unicamente sulle pagine rubate che mi stavan sott'occhio, ma anche, chissà per quale contagio (ed è la più grande lezione che mai abbia appreso da un nostro poeta contemporaneo) sulle pagine che già credevo d'aver letto di altri grandi poeti antichi e moderni, che ora invece (dopo la scansione dell'Allegria) mi pareva non di rileggere, ma di leggere per la primissima volta, e con una partecipazione intima che prima non m'ero sognata». Risale a questo periodo anche l'incontro con gli Ossi di seppia montaliani, comprati su una bancarella nell'edizione Ribet del 1928: "M'incontrai per la prima volta con Ossi di seppia intorno al '30, a Genova, e subito quelle pagine m'investirono con tale energia [...] da diventar per sempre parte inseparabile del mio essere, alimento e sangue della mia vita, indipendentemente e al di sopra dei riflessi, benefici o malefici, che tale poesia ha potuto avere sui pochi e poveri versi che ho scritto. | Montale ha per me il potere della grande musica, che non suggerisce né espone idee, ma le suscita in una con l'emozione profonda, e posso dire ch'egli è uno dei pochissimi poeti d'oggi che in qualche modo sia riuscito ad agire sulla mia percezione del mondo". Legge poi Cardarelli, i poeti della «Riviera ligure», Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Giovanni Boine, Mario Novaro e soprattutto Camillo Sbarbaro, incontrato anche su «Circoli», di cui Caproni diventa assiduo lettore. Invia alcune poesie proprio alla rivista «Circoli che però vengono respinte da Adriano Grande con parole non troppo incoraggianti "Egregio Signore, la poesia è fatta per tre quarti di pazienza. Abbia molta pazienza e aspetti". Anche da questi rifiuti nasce l'esigenza di una «risillabazione» della propria poesia, perseguita con un singolare sguardo all'indietro: «ho sentito il bisogno di riimmergermi nella tradizione, dopo tante invenzioni lambiccate e incomprensibili. E siccome la cura doveva essere radicale, ho scelto, per iniziare questo viaggio all'indietro, il Carducci, ossia il poeta che mi era più antipatico. E così parecchi hanno detto, ma quasi sempre dietro mia indicazione, che c'è in me un che di carducciano (del Carducci "macchiaiolo" naturalmente). Comunque, Carducci a parte, le mie vere fonti sono i poeti delle origini, dai siciliani ai toscani prima di Cavalcanti: poeti che usavano una lingua in fondo ancora inesistente, e quindi dura, spigolosa, non addomesticata a ritmi cantabili». Al 1932 Caproni ha sempre fatto risalire il proprio vero esordio poetico.

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Periodo romano

Dal 1939 visse con la moglie Rina a Roma, dove collaborò a diversi giornali e riviste con le sue poesie ma anche con saggi critici, racconti e traduzioni. La raccolta Il passaggio di Enea raccoglie tutte le sue poesie pubblicate fino al 1956 e riflette la sua esperienza di combattente durante la Seconda guerra mondiale e la Resistenza e raccoglie le poesie delle raccolte precedenti.

È sepolto con la moglie Rina nel cimitero di Loco di Rovegno.

La poetica

Nella sua poesia canta soprattutto temi ricorrenti (Genova, la madre e la città natale, il viaggio, il linguaggio), unendo raffinata perizia metrico-stilistica a immediatezza e chiarezza di sentimenti. Nel corso della sua produzione Caproni procede sempre maggiormente verso l'utilizzo di una forma metrica spezzata, esclamativa, che rispecchia l'animo del poeta alle prese con una realtà sfuggente impossibile da fissare con il linguaggio. Questo stile è evidente anche nell'impiego della forma classica del sonetto, impiegato in forma "monoblocco", ovvero senza divisioni strofiche. Caproni spezza la regolarità e il ritmo del sonetto utilizzando rime interne, enjambements, una sintassi spesso franta e il ricorso a interiezioni. L'ultima fase della sua poesia (da Il muro della terra in poi) insiste sul tema del linguaggio come strumento insufficiente e ingannevole, inadeguato a rappresentare la realtà:

«Buttate pure via
ogni opera in versi o in prosa.
Nessuno è mai riuscito a dire
cos’è, nella sua essenza, una rosa»

Bibliografia delle opere

Poesia

Come un'allegoria (1932-1935), 1936
Ballo a Fontanigorda, 1938
Finzioni, 1941
Cronistoria, 1943
Stanze della funicolare, 1952
Il passaggio di Enea. Prime e nuove poesie raccolte, 1956
Il seme del piangere, 1959
Congedo del viaggiatore cerimonioso e altre prosopopee, 1965
Il Terzo libro e altre cose, 1968
Il muro della terra, 1975
Erba francese, 1979
Il franco cacciatore, 1982
Versicoli del controcaproni, 1969 e seguenti, inediti
Tutte le poesie, 1983
Il Conte di Kevenhüller, 1986
Allegretto con Brio, 1988
Res amissa (postumo), a cura di Giorgio Agamben, 1991
L'opera in versi, a cura di Luca Zuliani, 1998
Quaderno di traduzioni, a cura di Enrico Testa, 1998
Allegria, 1986

Narrativa

Il labirinto, Milano, Garzanti, 1984
Frammenti di un diario (1948-1949), 1995
La valigia delle Indie e altre prose, 1998
Racconti scritti per forza, a cura di Adele Dei, 2008

Critica e saggi letterari

La scatola nera, a cura di Giovanni Raboni, 1996
Era così bello parlare. Conversazioni radiofoniche, prefazione di Luigi Surdich, 2004
Giudizi del lettore. Pareri editoriali, 2006
Una poesia indimenticabile. Lettere 1936-1986 (con Carlo Betocchi), a cura di Daniele Santero, prefazione di Giorgio Ficara, 2007

Articoli e Interviste

Giorgio Caproni, La Fiera Letteraria, Milano, 1975.
Giorgio Caproni, Rassegna della Letteratura italiana, Pisa, Le Lettere, 1981.
Giorgio Caproni, Il macchinista, 1959.
Giorgio Caproni, Italia socialista, 1948.
Ferdinando Camon, Il mestiere dei poeta, Garzanti, 1982.
Giorgio Caproni, Il Telegrafo, 1976.

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Bibliografia della critica

Angela Barbagallo, La poesia dei luoghi non giurisdizionali di Giorgio Caproni, Foggia, Bastogi, 2002
Antonio Barbuto, Giorgio Caproni. Il destino d'Enea, Roma, Edizioni dell’Ateneo Bizzarri, 1980
Daniela Baroncini, Caproni e la poesia del nulla, Pisa, Pacini, 2002
Ferdinando Camon, Il mestiere di poeta, Milano, Garzanti, 1982 (I ed. 1965)
Adele Dei, Giorgio Caproni, Milano, Mursia, 1992
Giorgio Devoto e Stefano Verdino (a cura di), Per Giorgio Caproni, Genova, San Marco dei Giustiniani, 1997
Eugenio De Signoribus (a cura di), Nell'opera di Giorgio Caproni, Urbania, Istmi, 1999
Biancamaria Frabotta, Giorgio Caproni. Il poeta del disincanto, Roma, Officina, 1993
Giuseppe Leonelli, Giorgio Caproni. Una guida alla lettura di un grande poeta del Novecento, Milano, Garzanti, 1997
Andrea Malaguti, La svolta d'Enea. Retorica ed esistenza in Giorgio Caproni (1932-1956), Genova, Il Melangolo, 2008
Francesca Palmas, La poesia dell'assurdo di Giorgio Caproni, in "Otto/Novecento", a. XXXIV, n. 3, settembre / dicembre 2010, pp. 161-172.
Franco Pappalardo La Rosa, Viaggio alla frontiera del non essere. La poesia di Giorgio Caproni, Alessandria, Edizioni Dell’Orso, 2006
Luigi Surdich, Giorgio Caproni. Un ritratto, Genova, Costa Nolan, 1990
Michela Baldini, Giorgio Caproni bibliografia delle opere e della critica (1933-2012), Pontedera, Bibliografia e Informazione, 2013

Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera

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