Parole di guerra in tempo di pace

Riprendiamo il nostro viaggio, attraverso il vocabolario della lingua italiana, alla scoperta di parole di tutti i giorni e che in origine avevano un significato diverso da quello attuale. Pilucchiamo, dunque, qua e là alla ricerca di parole di guerra adoperate in tempo di pace.
Il primo termine che ci viene alla mente è l’albergo, tanto caro ai magnati del petrolio che hanno solo l’imbarazzo della scelta per quanto riguarda le comodità che vi possono trovare. Ma sanno, costoro, che in origine l’albergo, di provenienza germanica, era un alloggio per militari?
Oggi, infatti, nessuno penserebbe che l’albergo, dal gotico ergo (letteralmente: alloggiamento militare) richiama il suono dei cupi tamburi di guerra. E chi sa che l’arnese, vocabolo più scolorito del primo, portato in Francia dai normanni della Scandinavia con l’accezione di equipaggiamento militare è giunto a noi con un significato diverso da quello originario?
Oggi, tutti lo sappiamo, per arnese si intende attrezzo da lavoro; quello che pochi sanno – forse – è, per l’appunto, il fatto che questo aggeggio è tratto dalla voce germanica hernest (originariamente: vettovaglie), acquisendo, attraverso un processo semantico, il significato di attrezzo.
Un’altra voce guerresca, adoperata comunemente da tutti senza sospettare minimamente la provenienza bellica, è gazzarra: rumore fatto dai mussulmani quando uscivano dall’agguato per assalire i cristiani.
Questo termine – è interessante notarlo – è stato introdotto nella nostra lingua attraverso lo spagnolo algazara e questo dall’arabo, appunto, gazara (“grido di guerra”). Alcuni insigni etimologi sostengono, però, che la voce potrebbe essere stata italianizzata direttamente dall’arabo; si noti, infatti, l’affinità: gazara (voce araba) e gazzarra (voce italiana); lo spagnolo, invece, ha la forma al gazara.
Gli esempi che abbiamo citato fin qui sono tutti di vocaboli militari passati lentamente e quasi inavvertitamente alla vita civile, ossia al parlare quotidiano, attraverso mutamenti nell’uso degli oggetti o allargamenti e restrizioni di significato. Il gonfalone, per esempio, che è di provenienza teutonica, significava vessillo di guerra e solo in seguito è passato a indicare piuttosto gli stendardi dei Comuni o delle varie confraternite religiose.
La lista di parole guerresche, insomma, trasportate a significare cose della vita comune – attraverso metafore – sarebbe interminabile. Si parla quotidianamente – sulla stampa – di battaglie del pensiero, di conquiste dei lavoratori, di contraccolpo di una azione. Ancora. Diciamo che una determinata idea sta, pian piano, guadagnando terreno; che oggi c’è la tendenza a militare in un partito o nelle file (attenzione: non fila, come capita spesso di leggere sulla stampa o di ascoltare nei vari radiotelegiornali) di una associazione; che si lotta per l’affermazione di un principio; che ci si schermisce dall’accettare un incarico prestigioso.
Tutti questi modi di dire non sono traslati da termini militari? Quando leggiamo che in un Paese del Sud America è stato sventato un colpo di Stato, non usiamo una terminologia guerresca? Sventare, infatti, vuol dire, propriamente, aprire il fornello di una mina perché vi penetri l’aria e quindi togliere qualsiasi efficacia allo scoppio. Il verbo sventare, quindi, oggi ha assunto il significato di rendere vano, in origine – come abbiamo visto – voleva dire fare uscire il vento, l’aria ed era adoperato in relazione all’opera dello sminamento. Di qui l’uso metaforico di sventare una mina, vale a dire mandare a vuoto una congiura. La congiura ci ha fatto venire alla mente l’ostracismo.
Per il significato “nascosto” di questo termine ci affidiamo al linguista Pianigiani etimo.it

08-04-2009 — Autore: Fausto Raso