Tuttofare? No, fare...

Pregiatissimo Signor Direttore, la prego cortesemente di voler pubblicare nella sua autorevole rubrica questa lettera aperta indirizzata agli amatori del bel parlare e del bello scrivere. Mi presento: sono il verbo Fare. Ho deciso di prendere carta e penna e chiarire le cose perché sono stanco di essere considerato un verbo buono per tutti gli usi, un tuttofare, insomma.
So benissimo – a rischio di cadere nella presunzione – di essere un verbo fondamentale nella lingua italiana in quanto indico qualunque cosa e, proprio per questo, vengo adoperato in vece del verbo specifico. Ciò, però, non giustifica l’abuso che alcuni fanno di me adoperandomi in casi in cui altri verbi sarebbero, anzi, sono più appropriati.
Alcune grammatiche, addirittura, mi classificano tra i verbi irregolari della I coniugazione, non sapendo, ahiloro, che appartengo, invece ai verbi irregolari della II coniugazione perché provengo dal latino facere divenuto, in lingua italiana, fare per la caduta (sincope) delle lettere interne nel corpo della parola: fa(ce)re.
Il mio significato generico è operare, agire e sono, per natura, transitivo anche se non disdegno la forma intransitiva nel significato di importare, essere conveniente e quella riflessiva nelle accezioni di divenire e spostarsi: «Giovanni si è fatto grande», vale a dire è divenuto grande; «fatti più in là», cioè spostati. Sono forme, queste, che non disdegno sempre che non se ne faccia abuso.
Non tollero, invece, di essere adoperato al posto di verbi più tecnici quali, per esempio: costruire; fabbricare; compiere; eseguire; sostenere; produrre; raccogliere. Non direte, quindi, fare una casa, ma costruire una casa; non fare un esame, ma sostenere un esame; non far legna, ma raccogliere legna.
Evitate, anche, di utilizzarmi in alcune locuzioni – seppure di uso comune – come: fa caldo; fa bel tempo; fare i nomi; far fuori; fare della pittura e via dicendo. Per ciascuna di queste locuzioni c’è un verbo specifico che fa, appunto, alla bisogna: è caldo; è bel tempo; rivelare i nomi, uccidere; dilettarsi di pittura.
Cercate anche – è un favore che mi permetto di chiedervi – di non adoperarmi in luogo del verbo dire, come fa molta gente di cultura: mi fece il suo nome un caro amico. Sono molto contento, invece, di servire per la formazione di alcune locuzioni particolari, tra le quali amo ricordare: far festa; far la festa a uno; far figura; far colpo; fare attenzione; far la fame; fare scalo; farla a uno; far l’occhio; far la mano; far l’orecchio.
Amici carissimi, se amate la lingua – come io credo – lasciate solo ai burocrati la vergogna di adoperarmi in locuzioni che fanno rabbrividire. Ne volete qualcuna? A far data; A far tempo; A far luogo da. Tutti questi obbrobri linguistici possono essere sostituiti con le espressioni cominciando da; con decorrenza da; partendo da o, semplicemente, con la preposizione da: gli stipendi saranno pagati con decorrenza dal primo del mese; cominciando dal primo del mese o, più semplicemente, dal primo del mese.
Sperando di non avervi tediato oltre ogni limite, ringrazio il Direttore della sua squisita ospitalità, vi auguro un mondo di bene e vi dedico un omaggio che Vittorio Alfieri ha voluto fare al mio nome: «Circostanza nessuna vi può essere che, nelle cose non necessarie a farsi, scusi il mal farle, o il farle meno bene della propria capacità; il che in letteratura è un malissimo fare; mentre le circostanze si poteano pure interamente domare, col non far nulla».
Grazie ancora, di cuore.
Il vostro amico Fare

05-03-2010 — Autore: Fausto Raso