Perché noi udiamo ed essi, invece, odono?

Vi siete mai chiesti, amici lettori, per quale motivo il verbo udire cambia la vocale iniziale u in o in alcuni modi e tempi nel corso della coniugazione? La u non è parte integrante del tema o radice del verbo? Come si giustifica, dunque, quella o in io odo? Il verbo è udire, appunto, non odire.
Il verbo in questione, gentili amici, viene dal solito latino audire la cui radice au è tratta dal sanscrito avami (‘faccio attenzione') è, quindi, sinonimo di ascoltare (chi ascolta presta attenzione), di sentire (che include anche gli effetti dell'animo) e di intendere (propriamente che è opera dell'intelletto).
Nel passaggio dal latino audire al volgare (italiano) udire il gruppo iniziale au, in posizione protonica, si è ridotto a u; mentre in posizione tonica si è trasformato in o (noi udiamo, posizione protonica; essi odono, posizione tonica).
Protonico, in linguistica, è un aggettivo che indica una lettera (o un gruppo di lettere) che precede la sillaba o la vocale tonica, la vocale o la sillaba, cioè, sulla quale cade l'accento. Per farla breve, cortese amici, è una questione – diciamo – di suono. Nel corso della coniugazione, insomma, la vocale tematica (la vocale che fa parte della radice del verbo) è o se su questa cade l'accento (io òdo); è, invece, u se questa non è accentata (voi udìte).
Si ha, dunque, il tema in o nel presente indicativo, ad eccezione della prima e della seconda persona plurale (noi udiamo, voi udite); nel congiuntivo presente, ad eccezione delle prime due persone plurali (che noi udiamo, che voi udiate) e nella seconda persona dell'imperativo. Quanto al futuro e al condizionale presente si possono avere le forme normali (io udirò, io udirei) e le forme sincopate (io udrò, io udrei).
E qui vale la pena ricordare che si chiama sincope, in linguistica, dal greco συνκοπή (synkopé, taglio), la caduta di un suono o di un gruppo di suoni all'interno di una parola. Nel caso specifico è stata tagliata la i. Uguale soppressione ad inizio di parola si chiama aferesi, in fine di parola apocope. Sprezzare, ad esempio, è aferesi di disprezzare; mentre bel è apocope di bello.
E anche in questo caso vale la pena ricordare che molti vocaboli troncati della nostra lingua sono la forma apocopata di parole piane (con l'accento sulla penultima sillaba) un tempo di uso comune come, ad esempio, città, apocope di cittade o virtù, apocope di virtute.
Ma torniamo al verbo udire il cui participio presente ha tre forme: udente, udiente e audiente. La più comune e conosciuta, naturalmente, è la prima, mentre la seconda e la terza – anche se non adoperate – sarebbero da preferire perché più vicine all'origine latina del verbo.
In latino i verbi in ire (audire) costituivano la quarta coniugazione (inglobata nella terza in lingua volgare, l'italiano) e nel participio presente conservavano la i che faceva parte del tema o radice. Se scriviamo o diciamo audiente (mantenendo la radice au latina) o udiente nessuno ci potrà mai tacciare di ignoranza linguistica.
A suffragio della nostra tesi riportiamo alcuni participi presenti con le forme latineggianti in iente e di cui nessuno si scandalizza: dormiente e veniente. Con un distinguo, però. Useremo la forma normale in ente con valore schiettamente verbale: il gattino dormente (che dorme) sul divano; privilegeremo la forma latineggiante in iente nelle sostantivazioni: non molestate il gattino dormiente.
Un'ultima annotazione. Udire significa, propriamente, percepire distintamente suoni o rumori con l'organo dell'udito ma nell'uso parlato è per lo più sostituito dal verbo sentire; mentre con uso estensivo vale dare ascolto a comandi, preghiere, consigli e simili e mostrare con il comportamento e l'azione di averli ascoltati.

13-07-2010 — Autore: Fausto Raso