Il non pleonastico

I lettori poco avvezzi a cose di lingua strabuzzeranno gli occhi alla lettura del titolo; senza sapere, invece, che adoperano questo non inconsciamente, a ogni piè sospinto; lo usano, quindi, pur non… conoscendolo.
Prima di addentrarci nel merito della questione riteniamo necessario, per tanto, spendere due parole sul pleonasmo, al fine di illuminare tutti coloro che sentono questa parola per la prima volta. Il pleonasmo, dunque (dal greco πλεονάζειν (pleonazein, sovrabbondare) è una particolare figura grammaticale che consiste nell’inserimento, all’interno di una proposizione, di una o più paroline prive di funzione specifica e, quindi, grammaticalmente non necessarie; queste paroline, per tanto, possono essere soppresse senza che il significato della proposizione abbia a soffrirne più di quanto non sia necessario. Come si evince facilmente dall’esempio il non si può sopprimere e dire semplicemente: più di quanto sia necessario. Questo non, quindi, è pleonastico, è, cioè, un di più.
Attenzione, però (c’è sempre un però), cortesi amici: non sempre il non è pleonastico, come molte grandi firme erroneamente ritengono. Molto spesso l’inserimento del non in una frase crea ambiguità e costringe il lettore o l’interlocutore a fare mente locale per capirci qualcosa. Gli amatori del non pleonastico sono, in maggioranza, i politici che nei loro discorsi ufficiali preferiscono adoperare le espressioni-tipo non possiamo non rilevare; non dobbiamo non credere; non possiamo non riconoscere il che equivale a: rileviamo, crediamo, riconosciamo. E fin qui nulla di male dal punto di vista linguistico perché è facile notare che due non si annullano; le frasi, quindi, non sono negative sebbene affermative. I dolori linguistici cominciano quando oltre al non c’è — in una proposizione — il cosiddetto che eccettuativo.
Ricordiamo, a questo proposito, un aneddoto di un giovane giudice, appassionato filologo, che interpretando secondo la logica grammaticale le dichiarazioni di un testimone lo minacciò di arresto immediato se non avesse detto esclusivamente la verità. Il poverino, infatti, volendo adoperare espressioni che riteneva potessero farlo apparire erudito agli occhi del magistrato, interrogato, rispose: non posso non dire che la verità. La risposta del teste, a un attento esame grammaticale, suona così: non posso dire solamente la verità (quindi dico cose anche non vere). Il malcapitato non si accorse del fatto che la frase conteneva un non di troppo che, seguito dal che eccettuativo (o restrittivo), aveva completamente stravolto il senso.
Attenzione, quindi, al non che — come avete visto — non sempre è pleonastico, cioè un di più che non altera assolutamente il senso del discorso.

15-04-2012 — Autore: Fausto Raso