Il precario

Avreste mai immaginato che le persone che hanno un impiego così detto precario, cioè non fisso, sono — stando alla lingua — le più religiose in quanto trascorrono (o hanno trascorso) il tempo in preghiera? Sì, perché precario si potrebbe definire “colui che prega” derivando dal latino precari (pregare). Se apriamo un qualsivoglia vocabolario alla voce in oggetto, leggiamo: “di breve durata, non stabile, provvisorio”.
Perché, dunque, questo significato? Perché l’aggettivo precario, insomma, sotto il profilo etimologico è il latino precariu(m), tratto da precari (implorare, pregare, appunto), a sua volta derivato di prex, precis (preghiera); alla lettera: ottenuto con preghiera. E le cose ottenute tramite preghiera, supplica, si sa, non durano molto.
Di qui il significato di instabilità, provvisorietà. A questo punto riteniamo sia meglio dare la parola a Cesare Marchi, che spiegherà più approfonditamente (e molto meglio di chi scrive) la “storia” di questo aggettivo che vorremmo — per miracolo — non fosse più attestato nei vocabolari.
«Supponiamo che il proprietario d’una casa, d’un podere, ne conceda l’uso a terzi, a una condizione: che la concessione può essere da lui revocata in qualsiasi momento. In questo caso l’usufruttuario gode di un possesso che non è sancito da un preciso diritto, ma dipende dalla volontà del proprietario, da un suo favore. Diremo perciò che quel possesso è precario. Dal verbo latino precari, che affonda la sua radice in prex, preghiera: cosa ottenuta con preghiera, concessa per grazia. Si tratta, in altre parole, di una cosa revocabile a discrezione altrui, donde, per estensione, i significati derivati di: incerto, temporaneo, provvisorio, transitorio, instabile, insicuro, occasionale, effimero, avventizio. Avventizi (dal latino adventicius, che si aggiunge, quindi occasionale, provvisorio, ndr) si chiamavano una volta gli impiegati assunti in prova negli uffici pubblici, ma non ancora inseriti nei ruoli. Adesso hanno preso il nome di precari, ma la cosa non cambia.
Cambia solo il numero, perché sono legioni, ogni anno più affollate e irrequiete, di gente che chiede un rapporto di lavoro stabile, a tempo indeterminato (ecco perché ci auguriamo che precario scompaia dai vocabolari, ndr). Anche se non hanno studiato il latino, avvertono la pericolosità di quel precarius, generato dalla prex, dalla preghiera, dal favore. Perciò si agitano affinché il loro diritto al lavoro non sia affidato all’alea d’una prex, ma garantito dalla forza della lex.
E se lo Stato, per ragioni di bilancio, esita ad accontentarli, fanno scioperi issando striscioni contenenti
imprecazioni contro il governo. Che sono preghiere capovolte: dal latino imprecari, pregare contro. Il giorno dopo, i giornali deprecano (sempre il latino de-precari, disapprovare, ndr).
Alla stessa famiglia lessicale appartengono facendo un passo indietro di millenni, i proci, nobili giovanotti di Itaca e dintorni che si erano allegramente sistemati nella casa dell’assente, e oramai creduto morto, Ulisse, aspettando che Penelope si decidesse a scegliere come sposo uno di loro. Proco, da prex, che prega una donna di sposarlo. In senso dispregiativo, il proco è un seduttore, un adulatore. Ricordiamo uno sfogo del Carducci: “Feci diventar bianco come questo foglio e balbettare e ritirarsi come una femminuccia bigotta un garibaldino passato a destra, professore di clinica medica all’Università di Roma, deputato, padrone di tutto, ganimede e proco di tutti i ministri”. Da proco a procace il passo è breve. Procace è una donna di prorompente sensualità e provocante impudicizia. Anch’essa contiene il concetto di prex, preghiera. Ma più che chiedere, offre

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19-12-2015 — Autore: Fausto Raso