Nella comunità rurale le radici di una lingua imperiale

Ci stiamo avviando ad avere una lingua universale, e lo è ormai diventato l'inglese. Ma quale italiano del Cinquecento, quand'era la nostra ad avere in Europa il maggior prestigio, avrebbe mai immaginato che una lingua nota quasi a nessuno oltre Manica, avrebbe potuto diventare idioma di diffusione planetaria? Il fatto è che in questi campi previsioni non se ne possono proprio fare mai.
Basta pensare alla storia dell'antica Roma, e alla nostra culla latina, che ha dato origine alle lingue romanze (o neolatine, come si dice), dal portoghese, allo spagnolo, al francese, all'italiano, al romeno. Chi poteva immaginare che un popolo di pastori e di contadini, che un gruppo così poco espanso sul territorio dovesse in seguito fondare un impero dodici volte più grande della Francia di oggi?
Se si torna ai tempi (lo raccontava, con l'efficacia che gli era solita, Giacomo Devoto nel suo volume Il linguaggio d'Italia) in cui al di là del Tevere si parlava etrusco, sui colli Albani si parlava il volsco, lingua che rimane in uso fino al III sec. a.C., ed il territorio dove si parlava il latino era ristretto a un'area inferiore all'odierno territorio comunale di Roma, si fa una certa fatica a immaginare l'enorme espansione sul territorio europeo di questo latino.
C'è da dire però che, pur diventando la lingua di un impero enorme, ha conservato tuttavia nei secoli le sue parole legate al lavoro della terra, alla piccola comunità rurale da cui era partita. Dal mondo rurale viene per esempio pecunia, da pecus, bestiame, che ci rimanda alla fase arcaica del baratto, prima che si introducesse la moneta; e ci viene egregius scelto dal gregge, o aggregare, aggiungere al gregge, quindi riunire, o cancellare mettere graticci, sbarrare, passato poi all'ambito scolastico (coprire con sbarrette, con segni obliqui, tratteggiare una sorta di cancello sulle parole da eliminare).
Questa lingua imperiale non si è mai liberata dalle sue pecore e dalle sue capre. Pensiamo all'origine della stessa numerazione latina: «Alle origini molto remote di questo sistema — fa osservare una linguista francese, Henriette Walter -, bisogna immaginare i pastori romani che registravano il numero delle capre facendo delle tacche su un bastone di legno: una per la prima capra, un'altra per la seconda, e così di seguito. Ma poiché la percezione immediata dell'occhio umano generalmente non supera quattro elementi separati, l'incisione corrispondente alla cifra cinque doveva essere un po' diversa. Sarebbe questa l'origine di V per 5, e di X per 10».

05-01-2016 — Autore: Gian Luigi Beccaria