Parole a... rischio

«La parola è potentissima quando viene dall’anima e mette in moto tutte le facoltà dell’anima ne’ suoi lettori; ma, quando il di dentro è vuoto e la parola non esprime che sé stessa, riesce insipida e noiosa».
Leggendo questa massima di Francesco De Sanctis, che non abbisogna assolutamente di spiegazioni tanto è chiaro il suo messaggio, abbiamo pensato di parlare, appunto, della parola. Cos’è, dunque, la parola?
I vocabolari la definiscono «un gruppo di suoni con cui si indica un oggetto o si esprime un’idea; la sua rappresentazione grafica». Ma donde viene? Dal solito latino, dal latino medievale paràula, contrazione del latino cristiano paràbola, formato con para (accanto, presso) e ballo (colloco, metto); vale a dire metto accanto, metto a confronto, quindi racconto per similitudini, per comparazione.
Che cosa ha che fare — vi domanderete — un racconto con la parola nell’accezione comunemente nota, cioè una sillaba o più sillabe che abbiano un significato nell’ambito di una determinata lingua e, quindi, la sua rappresentazione grafica? Perché, insomma, la parola da racconto è passata a indicare la... parola?
Il cambiamento semantico si è avuto nel latino cristiano in quanto la parola sostituì il classico verbum (parola) essendo le parabole di Gesù Cristo la parola divina per eccellenza. Tra le migliaia di parole che adoperiamo quotidianamente ve ne sono moltissime che potremmo definire a rischio perché la  loro flessione pone problemi di carattere ortografico o morfologico come, per esempio, la formazione di alcuni plurali che possono conservare o no la i del singolare: angoscia, nel plurale fa angoscie o angosce? Valigie o valige? Denunce o denuncie? E il plurale di camice? E la forma corretta alterata di ufficio è ufficetto o ufficietto? E il plurale di roccaforte è roccaforti o roccheforti? E quello di pellirossa? E quello di mezzanotte? E quello di mezzogiorno?
Vedete, cortesi amici, quante parole a rischio abbiamo elencato a mano a mano che ci venivano alla mente?
Potremmo continuare ancora in quanto il nostro idioma — checché ne dicano gli pseudolinguisti — è ricco di parole che lasciano perplessi sulla loro grafia. Occorre, per tanto, seguire alcune regole al  fine di evitare di scrivere (e di vedere scritta) una parola ora in modo ora in un altro. Bisogna evitare, insomma, la così detta anarchia linguistica che tanto piace a certi sedicenti scrittori.
Si dice che l’abito non fa il monaco e noi, a costo di rasentare la presunzione, diciamo che il nome non fa lo scrittore o il giornalista. E ci spieghiamo. Alcuni scrittori rampanti si sono fatti un nome soltanto per il contenuto scottante o volgare dei loro racconti, prendendo sistematicamente a calci  la lingua sotto il profilo grammaticale, sintattico e, soprattutto, ortografico. Se costoro sono scrittori (o giornalisti) di nome figuriamoci quelli che non hanno un... nome!
Ma torniamo alle parole a rischio e vediamo qual è il plurale di roccaforte che alcuni scrittori di cui sopra continuano sistematicamente a sbagliare. La regola stabilisce che nelle parole composte formate con un sostantivo (rocca) e un aggettivo (forte) prendono la desinenza del plurale entrambi i termini componenti; in parole semplici significa che si pluralizza sia il sostantivo sia l’aggettivo:  roccheforti. Diffidate, per tanto, di coloro — e sono tanti — che non rispettano la regola e scrivono: roccaforti.
Vediamo un’altra parola a rischio: angoscia. Anche se vi capita di leggere angoscie (con la i) nelle solite firme, sappiate che è una grafia errata perché le parole che finiscono in -cia o -gia nel plurale perdono la i se questa è preceduta da una consonante. Anche in questo caso c’è chi si fa beffe della regola e scrive: ciliege e valige. Purtroppo col beneplacito di qualche vocabolario.
Ci fermiamo, non vogliamo annoiarvi ancora.

04-05-2016 — Autore: Fausto Raso