Diminutivi scaduti

Piluccando qua e là nella vastissima foresta del vocabolario possiamo notare — se prestiamo la massima attenzione — che molto spesso adoperiamo vocaboli che possiamo definire diminutivi  scaduti, vocaboli, cioè, che hanno conservato la forma diminutiva senza averne più il valore. Questo fenomeno si riscontra soprattutto nel linguaggio scientifico. Come si spiega ciò?
Occorre — per trovare la motivazione — rifarsi, come il solito, alla lingua dei nostri padri: il latino. I Romani avevano a disposizione — fra i tanti mezzi linguistici — un infisso che inserito tra la radice e la desinenza della parola dava a quest’ultima un valore diminutivo; questo infisso era -ell- oppure -ul-.Vediamo qualche esempio per maggiore chiarezza. Da cell-a con l’infisso -ul- tra il tema (o radice) e la desinenza (cell-ul-a) si aveva cellula (piccola cella); da ov-um, ovulo (piccolo uovo); da rot-a, rotula (piccola ruota). Con la lingua volgare (l’italiano) questi diminutivi hanno perso il valore originario ma hanno conservato la forma diminutiva; sono, insomma, diminutivi scaduti.
Prendiamo, per esempio, l’ovulo. Per i nostri padri latini era un piccolo uovo; per noi, invece, indica un fungo a forma di uovo, conosciuto come fungo reale, oppure le particelle che le femmine degli animali portano con sé e che, una volta fecondate, danno origine al feto vivente.
E la cellula? Per i Latini era una piccola cantina, nel nostro linguaggio scientifico indica, invece, l’unità elementare dei tessuti tanto vegetali quanto animali e, in senso metaforico, l’unità di qualsiasi istituto od organismo, come partiti, sindacati, società e via dicendo.
In questi casi il parlante volgare (l’italiano) anche se non sente più il valore del diminutivo ne vede ancora la forma; mentre in altri casi soltanto chi ha studiato il latino riesce a cogliere nel vocabolo volgare l’antico diminutivo latino (essendo, appunto, scomparso).
La gente, nel parlare quotidiano, usa spesso il diminutivo senza sentirne effettivamente il valore. Accade, così, che nell’uso la forma diminutiva finisca col prevalere su quella primitiva, sino a farla cadere nel… dimenticatoio. Il discorso è un po’ complesso, cercheremo di fare del nostro meglio per essere chiari.
Vogliamo dire, insomma, che i parlanti, nel periodo di transizione dal latino al volgare (italiano), hanno adoperato il diminutivo e il vocabolo che ne è derivato ha conservato la forma alterata (diminutivo) senza averne più il valore. Alcuni diminutivi scaduti che abbiamo preso dal vocabolario serviranno a chiarire maggiormente il concetto.
Il coltello, per esempio, viene da cultellu(m), diminutivo di cultru(m), dovrebbe significare, quindi,  coltellino, non coltello, appunto. Castello dovrebbe significare castellino essendo il latino castellu(m), diminutivo di castru(m); fratello da fratellu(m), diminutivo di fratre(m), dovrebbe voler dire fratellino; mentre l’anello, da anellu(m), diminutivo di anulu(m), sarebbe anellino.
Ma parlando o scrivendo, chi mai penserebbe che questi vocaboli hanno mantenuto la forma diminutiva  originaria perdendone, però, il valore? Ciò è dimostrato dal fatto che a fratello, coltello e castello si sono affiancati fratellino, coltellino e castellino.
E per finire ci sembra interessante vedere come alcuni diminutivi sono passati nella lingua volgare, cioè in italiano, attraverso metamorfosi (vale a dire attraverso mutamenti) molto più strane. Nessuno penserebbe che il sostantivo la pecchia (ape) — per la verità di uso assai raro e poetico — sia il diminutivo di ape, passato assieme al suo articolo attraverso queste fasi: ape(m), apecula(m), apecla, apecchia, poi con l’aggiunta dell’articolo l’apecchia e, infine, la pecchia, con il passaggio della vocale a iniziale dal sostantivo al suo articolo,  a seguito di un processo di deglutinazione.
Con questo termine si indica, in linguistica, la caduta del suono originale iniziale di una parola perché ritenuto articolo o preposizione.

12-05-2016 — Autore: Fausto Raso