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Bartolomeo Dotti
(✶1651 †1713)
La prigionia di Tortona (1684-1685)
La detenzione dura dalla primavera-estate 1684 all'autunno 1685. Nelle odi di questo periodo, di gran lunga le più ispirate, il Dotti dà fondo al proprio repertorio di frasi magniloquenti e pose eroiche a «novello Cristo» (!) perduto nel «labirinto» del carcere, visto anche come «chiusa spelonca» nella quale il poeta vive un'anticipata sepoltura, meditando la vendetta. Di fatto la sua detenzione è ben lontana dall'essere il martirio che il D. ama figurare nei suoi versi: il castellano gli si mostra benevolo, concedendogli un margine di libertà che gli permette di partecipare della vita cittadina, ricevendo le visite del canonico Antonio Maria Molo; può tenere con sé un cannocchiale, col quale osservare le bellezze cittadine. Al di fuori delle odi, il Dotti non stenta affatto a riconoscere che le sue condizioni non sono affatto così cattive, come dimostra, per esempio, una lettera dell'8 luglio 1685 all'amico Giulio Antonio Gagliardi, nella quale paragona il carcere tortonese all'isola di Armida, sostenendo che se tutte le carceri fossero tali la gente vi si potrebbe liberamente monacare.
L'evasione e l'Oriente (1685-1689)
Ugualmente comprensibile è tuttavia il suo desiderio di libertà: quello che una notte lo spinse a evadere calandosi dalle mura e attraversando lo Scrivia a nuoto (come ricorderà in uno dei Sonetti).
Dopo un largo giro attraverso la Liguria, il territorio di Parma e quello di Mantova raggiunse nuovamente Brescia.
Nel giugno del 1686 decise di partire per l'Oriente al séguito di Pietro Bembo, designato dal Morosini provveditore straordinario di Santa Maura (l'odierna Leucade). Il suo progetto era quello di combattere contro i turchi, acquistandosi merito al cospetto della Repubblica di Venezia, e ottenendo quindi la revoca del bando che l'aveva colpito. Mentre concepiva l'idealistico progetto, fu raggiunto dalla notizia degli ultimi sviluppi della questione tra l'Avogadro e il Lucini da una parte col Bargnani dall'altra. Il tentativo da parte del Bargnani di coinvolgere anche lui nell'aggiustamento, accecandolo di furore, lo indusse ad esprimere i suoi sensi in un violentissimo Manifesto, pubblicamente arso ai primi del 1687 per volontà del Senato di Milano (ma pervenutoci).
Nonostante quanto è stato talora sostenuto, il D. a Santa Maura non combatté mai contro i turchi, benché lo desiderasse ardentemente, ma fu molto meno eroicamente preposto al catasto dei beni turchi da devolvere alle esangui casse della Repubblica, occupando il resto del tempo a scrivere versi encomiastici per i generali veneti in Levante. Veduti sfumare i sogni di guadagno e di gloria, il D. cominciò presto a rimpiangere la scelta, augurandosi di rimpatriare al più presto.
Rientro a Venezia (1688-'89) e nuova carcerazione (1689-'90). I Sonetti (1689).
Il rimpatrio fu possibile, provvisoriamente, non prima del 1688, e definitivamente nel 1689, grazie alla revoca del bando da parte del provveditore generale da mar Girolamo Cornaro.
Ma appena giunto in terraferma, il Dotti fu colpito dall'accusa di aver abusato del proprio ufficio di Santa Maura, finendo nuovamente imprigionato. La soddisfazione di veder pubblicati, almeno, i Sonetti (1689) gli fu avvelenata dalla terribile ricezione da parte dei compatrioti. Come già detto, la stampa delle Odi, prevista per l'immediato futuro, abortì, e il Dotti si sottopose a un rapido ma radicalissimo riesame della propria poetica. Non avendo scampo come barocchista, dopo il disastroso fallimento delle sue laboriose rime, decise quindi di passare alla satira, avvicindandosi gradualmente al movimento letterario dell'Arcadia.
Riabilitazione (1690-1694). Le Satire.
Ottenne la riabilitazione davanti alla Repubblica veneta quando, in séguito alla rinuncia di Pasquino Dotti, assunse nuovamente la carica di nunzio del Territorio di Brescia. In questa veste, il Dotti fu impegnato a impiegare le proprie conoscenze influenti per sostenere i diritti del contado contro i privilegi e le prepotenze della nobiltà cittadina. La sua poesia, in questo periodo, rifletté la sua attività ufficiale, come dimostra ad esempio la satira Al signor conte Ottolino sul problema delle condotte del sale.
Il Dotti figura tra i primi affiliati dell'accademia degli Animosi fondata da Apostolo Zeno: un fatto significativo, perché l'accademia passerà in breve tempo a colonia d'Arcadia, alla quale il Dotti aderirà con il nome di Viburno Megario.
Le satire, che conobbero una circolazione esclusivamente manoscritta ma frenetica, gli diedero fama e prestigio mondano. Divenne in questi anni cavalier servente della più nota bellezza dei salotti dell'epoca, Lucrezia Basadonna Mocenigo, alla quale dedicò diverse satire.
In questi componimenti, spesso in quartine di versi brevi, in cui il Dotti si scopre versificatore di vena piuttosto facile, ben lontano dalla fastosa macchinosità delle Odi e dalla lavoratissima artificiosità dei Sonetti, sono presi di mira i costumi degenerati dell'epoca, più con acrimonia che con arguzia. L'enorme successo a cui andarono incontro non impedì al Dotti di avere ulteriori scontri con varie personalità; in un caso almeno fu fatto prendere a bastonate.
Al successo mondano fecero riscontro anche i riconoscimenti ufficiali: prima del 1694 fu nominato, ma non è certo se per meriti letterari, cavaliere e gentilhuomo d'Ungheria da parte dell'imperatore Leopoldo I. Un titolo che lo riempì d'orgoglio, in contraddizione evidente con la missione finora sostenuta di paladino degli oppressi e di fustigatore dell'aristocrazia, come i maligni non mancheranno di osservare.
Benché si sappia che gli ultimi anni, dedicati all'esercizio letterario, siano stati trascorsi dal Dotti piuttosto pacificamente, le ultime notizie certe sulla sua vita, risalenti al 1711, sono tutt'altro che positive. Durante un soggiorno a Brescia, in piazza del Navarino, subì l'aggressione di alcuni sicari. Si trattava del tentativo di vendetta del bresciano conte Mario Stella, ennesima vittima dei suoi salaci versi. L'attentato fallì, ma purtroppo per il Dotti non sarebbe stato l'ultimo.
La morte
Il 28 gennaio 1713, a Venezia, alle 4.00 del mattino, mentre passa, diretto a casa, per calle della Madonna a sant'Angelo, il Dotti è ucciso con tre pugnalate da un misterioso aggressore.
Le indagini durano almeno un anno, senza portare a nulla: ma le personalità offese dalle sue satire erano molte. Recentemente è stata avanzata l'ipotesi, tuttavia abbastanza verosimile, che l'omicidio sia stato commissionato da qualcuno dell'entourage, forse da una delle sorelle, di Alessandro Scarlatti, all'epoca attivo nella città lagunare con opere ammirate dagli intenditori e non capite dal popolo, nonché crudelmente sbeffeggiate (in particolar modo il Mitridate Eupatore, 1707) dal Dotti in alcuni tra i suoi versi più sciatti e trascurabili, di cui sono spesso citati i seguenti:
«Che sia musica soave
spirti rei negar nol ponno
Se negli occhi a chi non l'have
introduce un dolce sonno.»
Senza che ciò implichi, ovviamente, alcun diretto coinvolgimento del musicista nel fatto.
Che gli odii scatenati fossero tuttavia molti e vivi è dimostrato dalle molte satire messe in circolazione dopo la sua morte, espressione di compiacimento per la sua morte.
Per interessamento dei fratelli fu sepolto nella chiesa di s. Vitale.
Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera
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