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Galileo Galilei
(✶1564 †1642)
A cospetto di tale sconfitta dei seguaci delle teorie copernicane, Galilei non si diede per vinto e rimase ancora a Roma per tre mesi, a discutere e a cercare di convincere delle sue opinioni. L'ambasciatore Guicciardini il 13 maggio scrisse a Picchena che Galilei «ha un umore fisso di scaponire i frati et combattere con chi egli non può se non perdere [...] lo stare absente da questo paese li sarebbe di gran benefizio et servizio». Il cardinale Bellarmino diede comunque a Galileo una dichiarazione in cui venivano negate abiure ma in cui si ribadiva la proibizione di sostenere le tesi copernicane: forse gli onori e le cortesie ricevute malgrado tutto, fecero cadere Galileo nell'illusione che a lui fosse permesso quello che ad altri era vietato: «nelle contraddizioni e distinzioni e compromessi nati durante il primo processo è l'origine delle future complicazioni del secondo processo di Galileo».
La polemica sulle comete
Tuttavia Galileo non rispose alla De situ et quiete Terrae contra Copernici systema disputatio che il segretario della Congregazione di Propaganda Fide Francesco Ingoli gli aveva inviato il gennaio precedente a confutazione dell'eliocentrismo, basata sul «moderno» modello di Tycho Brahe: segno che la censura del Sant'Offizio aveva avuto effetto e consigliato Galileo alla prudenza, dalla quale desisterà però otto anni dopo, quando riterrà erroneamente che il clima culturale fosse mutato.
Nel novembre del 1618 comparvero nel cielo tre comete, fatto che attirò l'attenzione e stimolò gli studi degli astronomi di tutta Europa. Fra essi il gesuita Orazio Grassi, matematico del Collegio Romano, tenne con successo una lezione che ebbe vasta eco, la Disputatio astronomica de tribus cometis anni MDCXVIII: con essa, sulla base di alcune osservazioni dirette e di un procedimento logico-scolastico, egli sosteneva l'ipotesi che le comete fossero corpi situati oltre al «cielo della Luna» e la utilizzava per avvalorare il modello di Tycho Brahe, secondo il quale la Terra è posta al centro dell'universo, con gli altri pianeti in orbita invece intorno al Sole, contro l'ipotesi eliocentrica.
Galilei decise di replicare per difendere la validità del modello copernicano. Rispose in modo indiretto, attraverso lo scritto Discorso delle comete di un suo amico e discepolo, Mario Guiducci, ma in cui la mano del maestro era certamente presente. Nella sua replica Galileo sosteneva erroneamente che le comete non erano oggetti celesti, ma puri effetti ottici prodotti dalla luce solare su vapori elevatisi dalla Terra, ma indicava anche le contraddizioni del ragionamento di Grassi e le sue erronee deduzioni dalle osservazioni delle comete con il cannocchiale. Il gesuita rispose con uno scritto intitolato Libra astronomica ac philosophica, firmato con lo pseudonimo anagrammatico di Lotario Sarsi, attaccava direttamente Galilei e il copernicanesimo.
Galilei a questo punto rispose direttamente: solo nel 1622 fu pronto il trattato Il Saggiatore. Scritto in forma di lettera, fu approvato dagli accademici dei Lincei e stampato a Roma nel maggio 1623. Il 6 agosto, dopo la morte di papa Gregorio XV, con il nome di Urbano VIII saliva al soglio pontificio Maffeo Barberini, da anni amico ed estimatore di Galileo. Questo convinse erroneamente Galileo che «risorge la speranza, quella speranza che era ormai quasi del tutto sepolta. Siamo sul punto di assistere al ritorno del prezioso sapere dal lungo esilio a cui era stato costretto», come scritto al nipote del papa Francesco Barberini.
Il Saggiatore
Contro la Libra astronomica, titolo mal scelto da Grassi, perché da lui derivato dall'erronea opinione che le comete fossero apparse nella costellazione della Bilancia, quando in realtà erano state osservate in quella dello Scorpione, Galileo esercitò brillantemente la sua ironia intitolando la sua risposta, per sottolineare la propria accuratezza rispetto alla grossolanità delle argomentazioni di Orazio Grassi, Il Saggiatore, nel quale con bilancia squisita e giusta si ponderano le cose contenute nella Libbra, volendo anche far intendere che le osservazioni empiriche vanno misurate con uno strumento di precisione come il saggiatore, che serve appunto per misurare il peso della polvere d'oro e non con la libbra, l'imprecisa e rozza stadera.
Il Saggiatore presenta una teoria rivelatasi successivamente erronea delle comete come apparenze dovute ai raggi solari. La differenza tra le argomentazioni di Grassi e quella di Galileo era tuttavia soprattutto di metodo, in quanto il secondo basava i propri ragionamenti sulle esperienze. Nel Saggiatore, Galileo scrisse infatti la celebre metafora secondo la quale «la filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo)», mettendosi in contrasto con Grassi che si richiamava all'autorità dei maestri del passato e di Aristotele per l'accertamento della verità sulle questioni naturali.
Vi sono nell'opera anche accenni a corrette soluzioni scientifiche, come la dimostrazione che il calore non è sviluppato dal puro e semplice movimento dei corpi, ma dall'attrito del mezzo, o come le considerazioni sull'aderenza dell'aria e dell'acqua sui corpi, o come la polemica sull'improprio uso del linguaggio comune – grande, piccolo, vicino, lontano – in un ambito che dovrebbe essere rigorosamente scientifico.
Gli incontri con Urbano VIII (Roma, 1624) e la Lettera a Francesco Ingoli
Il 23 aprile 1624 Galilei giunse a Roma per rendere omaggio al papa e strappargli la concessione della tolleranza della Chiesa nei confronti del sistema copernicano, ma nelle sei udienze concessegli da Urbano VIII non ottenne da questi alcun impegno preciso in tal senso.
Senza nessuna assicurazione ma con il vago incoraggiamento che gli veniva dall'esser stato onorato da papa Urbano – che concesse una pensione al figlio Vincenzio – Galileo ritenne di poter rispondere finalmente, nel settembre del 1624, alla Disputatio di Francesco Ingoli. Galileo sa di non potersi permettere, con il potente segretario della Congregazione di Propaganda Fide e per i suoi trascorsi, alcuna aperta ironia: prudentemente, premette perciò di non voler sostenere «quella posizione che già è stata dichiarata per sospetta e repugnante» alla dottrina della Chiesa e aggiunge che «a confusione degli eretici, tra i quali sento quelli di maggior grido esser tutti dell'opinione di Copernico», intende dimostrare a loro che «noi Cattolici non per difetto di discorso naturale [...] restiamo nell'antica certezza insegnataci da' sacri autori, ma per la reverenza che portiamo alle scritture». Questa riverenza, secondo Galileo, non deve però impedire a un cattolico di intendere ed esporre correttamente i problemi delle scienze astronomiche e naturali così che quegli eretici copernicani «potranno tassarci per uomini costanti nella nostra oppenione, ma non già per ciechi o per ignoranti dell'umane discipline».
Reso formale omaggio all'ortodossia cattolica, nella sua risposta Galileo dovrà confutare le argomentazioni anticopernicane dell'Ingoli senza proporre quel modello astronomico, né rispondere alle argomentazioni teologiche: così, all'argomento che il centro dell'universo è il luogo «più inferiore» e dev'essere occupato dalla Terra perché questa è il corpo «più crasso» di ogni altro corpo celeste, Galileo obietta che non esiste nell'universo un unico luogo inferiore, ma tanti quanti sono i centri di ogni singolo corpo: «noi aremo nell'università del mondo tanti centri e tanti luoghi inferiori e superiori, quanti sono i globi mondani e gli orbi che intorno a diversi punti si raggiano». Quanto poi all'idea che la Terra sia il più «crasso» dei corpi celesti, «né io né voi sappiamo, né possiamo sicuramente sapere», poiché nessuna esperienza lo dimostra.
Hanno fatto dibattere gli studiosi le affermazioni sulla molteplicità dei centri e il noto passo: «è ancora indeciso (e credo che sarà sempre tra le scienze umane) se l'universo sia finito o pure infinito [...] la mente mia non si sa accomodare a concepirlo né finito né infinito», sulla reale opinione avuta da Galileo. È possibile che Galileo sia stato spinto «a praticare la virtù della prudenza», ben conoscendo la sorte subita da Bruno pochi decenni prima e quella del De revolutionibus copernicano, oltre, naturalmente, la sua stessa vicenda, più tardi nel 1633. Giordano Bruno non viene da lui mai menzionato, né negli scritti né nelle lettere. È però anche possibile che questo problema, come in generale quelli di cosmologia e anche di meccanica celeste, non avesse per lui un grande interesse.
Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera
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