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Gesualdo Bufalino
(✶1920   †1996)

Lo scrittore, considerava il jazz una “curiosità” e a tale termine egli attribuiva il significato di interesse culturale fuori dall'ambito letterario, come lo era la musica classica o il cinema. È poi significativo che nell'evoluzione della sua curva artistica abbia tramutato tale “curiosità” in materiale letterario operando costanti riferimenti alla storia del jazz, alle sue origini e ai suoi protagonisti. Si possono così cogliere le correlazioni tra l'universo poetico dello scrittore e le atmosfere sonore che le sue pagine suggeriscono. Un conoscitore attento, che nei suoi libri faceva riferimento a Coleman Hawkins e Jack Teagarden, in Bluff di Parole, Bix Beiderbecke e Jelly Roll Morton, figura storica e carismatica del jazz di New Orleans, in Tommaso e il fotografo cieco,

«Ricordi, Tommaso, il Jelly Roll Morton che t'ho fatto ascoltare domenica? Dead Man Blues, il blues dell'uomo morto…»

ma anche Duke Ellington e Sidney Bechet in Argo il cieco; e infine l'amato Charlie Parker, che ha aperto nuovi percorsi alla musica jazz, e che Bufalino richiama più volte nei suoi testi:

«[...] ma io volli ascoltare tre volte un Parker, Relaxin' at Camarillo...»

Oltre quelli già citati, i grandi artisti prediletti da Bufalino furono Cootie Williams, il geniale solista Louis Armstrong, e Billie Holiday. I suoi dischi preferiti vanno da Careless love a Blue Moon, da Relaxin' at Camarillo a Singing the blues. Egli riteneva la sua condizione di fruitore come quella di un “incompetente a metà”:

«L'incompetenza totale offre a chi ne gode il vantaggio di potersi porre di fronte a un gesto d'arte senza pregiudizi o sospetti, come un innocente all'estero, docile solo al flusso primario delle emozioni. Condizione più dura è quella in cui presumo di trovarmi io di fronte al jazz contemporaneo: di incompetente a metà, avendo in gioventù amato fino a farmene passione le vicende novecentesche di quella musica nuova ma essendo divenuto più tiepido dopo la morte di Charlie Parker e l'avvento dei più sofisticati suoni, ostici a chi aveva soprattutto idolatrato Bix o Coleman Hawkins»

Nel suo ultimo romanzo, a proposito della musica Bufalino scrive:

«Ma io, se musica ha da essere, voglio che sia un massaggio serafico sulle cicatrici dell'anima»
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La traduzione

Gesualdo Bufalino fu uno stimato traduttore di letteratura francese (e non solo) divenendo così un interprete finissimo di tale cultura, interessandosi a scrittori distanti e diversi per le modalità di scrittura. Una passione coltivata fin dall'adolescenza quella di Bufalino per la letteratura straniera, che lo ha portato a farsi traduttore e interprete di numerosi autori stranieri e che lo ha fatto conoscere negli ambienti letterari ancor prima dei suoi romanzi.

Dopo la prefazione ad un libro di fotografie, furono infatti le traduzioni a essere pubblicate dalla casa editrice Sellerio, ancor prima di Diceria dell'untore che valse allo scrittore comisano il Premio Campiello. Una passione alimentata nei difficili anni in cui dovette lottare contro la tisi e approfondita in quelli dedicati all'insegnamento nelle scuole superiori.

La traduzione è stata per Bufalino un lavoro da autodidatta, iniziato quando lo scrittore aveva ancora sedici anni, con l'interesse per Baudelaire. E proprio su Baudelaire Bufalino condusse un originalissimo esperimento: quello della retroversione dall'italiano in francese de I fiori del male. Il giovane Bufalino non aveva a disposizione il testo francese, ma solo una traduzione italiana in prosa dalla quale cercò di ricostruire l'originale. In età matura non si è occupato solamente di quest'opera, che ha pubblicato per Mondadori, ma anche di altri autori francesi; infatti seppe scovare nella produzione di scrittori come Giraudoux, Madame de La Fayette, Hugo, Renan e Toulet, opere minori che volse in italiano per Sellerio.

Da altre lingue in rilievo la versione degli Adelphoe, l'ultima delle sei commedie di Terenzio, approntata da Bufalino nel 1983 per l'Istituto Nazionale del Dramma Antico e messa in scena, quell'estate, al teatro greco di Segesta, con grande gioia del traduttore che poté assistere al debutto in compagnia di alcuni amici. Non meno importante, anche se meno nota, l'esperienza che Bufalino fece come traduttore delle Greguerías di Ramón Gómez de la Serna. Di questa traduzione ha parlato l'ispanista Anita Fabiani che ha evidenziato la capacità bufaliniana di rendere il testo spagnolo tramite interventi della propria sensibilità di scrittore volta a volta delicatissimi ovvero massicci, con una spiccata preferenza per scelte lessicali più poetiche.

Per lui il testo tradotto doveva produrre nel lettore la stessa suggestione dell'originale. E a proposito del ruolo del traduttore lo stesso Bufalino dice:

«Il suo compito, a mio parere, è più umile e umano che non si pensi: il suo è un servizio, un'assistenza prestata da un vedente a uso dei non vedenti; qualcosa di simile a chi aiuta un cieco ad attraversare la strada. Dove per cecità si intende la barriera d'una lingua straniera. […] il traduttore è come uno scassinatore di casseforti. Guai se gli tremano le mani. […] Freddezza e passione, dunque, ci vogliono entrambe. Il traduttore deve essere insieme un mistico e un ingegnere. Quindi, tradurre è più di un esercizio: è un gesto di ascesi e di amore»
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Direttamente dalle carte dello scrittore si possono trarre elementi più oggettivi e verificabili a proposito di tale questione, in particolare dal carteggio giovanile con Angelo Romanò. In due lettere della fine del '44, che i due si scambiano quando Bufalino era ricoverato all'ospedale di Scandiano a causa dell'insorgere della tisi, a un certo punto si tocca il problema della traduzione:

«Io, adesso, sto lottando in uno sterile esercizio a rendere I fiori del male in versi italiani. E mi piacerebbe sentire da te come pensi e se pensi si debba perseguire un'equivalenza metrica (in tutti i casi ben elastica) per quegli alessandrini così compatti e definitivi (raro l'enjambement, e la censura è la classica). Voglio dirti infine: un verso come: “O vase de tristesse, o grande taciturne” non si può a parer mio che ricalcarlo: O vaso di tristezza, o grande taciturna. E questo, per la natura del verso Baudel., accade tanto spesso che io ho creduto finora d'affidarmi ai versi di quattordici sillabe. Ma è solo un esercizio. Dimmi comunque cosa pensi di ciò.»

Alcuni passaggi della risposta di Romanò:

«Quanto a Baudelaire, io qui non potrei che darti qualche accenno: ma intanto mi pare che l'equivalenza metrica non debba sfociare a risultati troppo probabili. […] Penso che si possa ricreare l'atmosfera piuttosto affidandosi ad un dialogo di cadenze sottilmente interne, magari abolendo le rime che in una traduzione ricalcata invece diventerebbero pressoché necessarie.[…]»

Questa passione è verificabile anche nei vari richiami che l'autore fa nella sua narrativa. In alcuni passi de Il Malpensante, secondo Bufalino

«Il traduttore è l'unico autentico lettore d'un testo. Non dico i critici, che non hanno voglia né tempo di cimentarsi in un corpo a corpo altrettanto carnale, ma nemmeno l'autore ne sa, su ciò che ha scritto, più di quanto un traduttore innamorato indovini[…]»

In un altro aforisma, Bufalino chiarisce:

«Poiché d'un testo il critico è solamente il corteggiatore volante, l'autore il padre e marito, mentre il traduttore è l'amante»

Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera

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