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Giambattista Vico
(✶1668 †1744)
La produzione filosofica della maturità: dal Diritto universale alla Scienza nuova
L'incontro di Vico con la filosofia di «Ugon capo» ebbe un'importanza decisiva per il suo sviluppo intellettuale, poiché da quel momento il suo interesse sarà completamente assorbito dai problemi giuridici e storici. L'idea dell'esistenza di un'umanità ferina e primitiva, dominata solamente dal senso e dalla fantasia, ed entro cui si producono gli «ordini civili» divenne centrale in tutto il pensiero vichiano. Nel luglio 1720 vide la luce un'opera di filosofia del diritto, intitolata De uno universi iuris principio et fine uno, seguita, nel 1721, dallo scritto De constantia iurisprudentis, diviso in due parti (De constantia philosophiae e De constantia philologiae), e che, nonostante il titolo si riferisca alla tematica giuridica, è meno incentrato sull'argomento rispetto al De uno. Benché le due opere del 1720 e del 1721 si differenzino, segno di un rapido sviluppo del pensiero vichiano, è d'uso considerarli, come invero fece anche il Vico, insieme alle Notae aggiunte nel 1722 e le Sinopsi premesse al testo, sotto l'unico titolo di Diritto universale.Il 24 marzo 1723 Vico s'iscrisse al concorso per ottenere la cattedra «matutina» di diritto civile presso l'Università di Napoli e il successivo 24 aprile commentò un passo delle Quaestiones di Papiniano davanti a un collegio di giudici, ma, con suo grande scorno, il posto fu assegnato a un tal Domenico Gentile. Dopo la fama ottenuta dalla pubblicazione della Scienza Nuova, nel 1732 ottenne dal re Carlo III di Borbone, la carica di storiografo regio. Tanto nuova era la sua dottrina che la cultura del tempo non poté apprezzarla: così che Vico rimase appartato e quasi del tutto sconosciuto negli ambienti intellettuali, dovendosi accontentare di una cattedra di secondaria importanza all'Università napoletana che lo manteneva inoltre in tali ristrettezze economiche che per pubblicare il suo capolavoro la Scienza Nuova dovette toglierne alcune parti in modo che risultasse meno costoso per la stampa.
A queste difficoltà economiche per la pubblicazione delle sue opere, che influirono certo negativamente sulla sua notorietà nel mondo accademico, va aggiunto il suo stile di scrittura poco lineare che rendeva difficile la lettura del suo pensiero. Prima della Scienza Nuova Vico aveva scritto la prolusione inaugurale De nostri temporis studiorum ratione (1708), il De antiquissima Italorum sapientia, ex linguae latinae originibus eruenda (1710) ("L'antichissima sapienza delle popolazioni italiche, da rintracciare nelle origini della lingua latina") a cui si devono aggiungere le due Risposte al "Giornale dei letterati di Venezia" (1711 e 1712) che aveva criticato il suo pensiero, il De uno universi iuris principio et fine uno (1720) e il De costantia iurisprudentis (1721). Nello stesso anno della pubblicazione della Scienza Nuova Vico, afflitto da difficoltà e disgrazie familiari, incominciò a scrivere la sua Autobiografia pubblicata a Venezia tra il 1728 e il 1729.
Nel 1725 vengono pubblicati i Principj di una Scienza Nuova intorno alla natura delle nazioni, più conosciuta con il titolo abbreviato di Scienza Nuova. Alla "Scienza Nuova" Vico lavorò per tutto il corso della sua vita, con una edizione integralmente riscritta nel 1730 anche a seguito delle critiche ricevute (cui aveva risposto nelle Vici Vindiciae del 1729) e, infine, rivista completamente, senza grandi modifiche, per la terza edizione del 1744, pubblicata pochi mesi dopo la sua morte da suo figlio Gennaro che lo aveva sostituito nell'insegnamento accademico.
La morte
«[incominciarono a crescere] quei malori che fin dai suoi più floridi anni l’avevano debilitato. Cominciò adunque ad essere indebolito in tutto il sistema nervoso in guisa che a stento poteva camminare e, quel che più lo affligea, era di vedersi ogni giorno infiacchire la reminiscenza....Il fiaccato corpo del saggio vecchio andò in seguito ogni giorno più a debilitarsi in guisa che aveva perduto quasi interamente la memoria fino a dimenticare gli oggetti a sé più vicini ed a scambiare i nomi delle cose più usuali...»
Non riconosceva più i suoi stessi figli e fu costretto ad allettarsi. Solo in punto di morte riacquistò la coscienza come svegliandosi da un lungo sonno; chiese i conforti religiosi e recitando i salmi di Davide morì il 20 gennaio 1744 dopo aver appena superato i 76 anni d’età. Per la celebrazione delle esequie nacque un contrasto tra i confratelli della congregazione di Santa Sofia, alla quale Vico era iscritto, e i professori dell’Università di Napoli su chi dovesse tenere i fiocchi della coltre mortuaria. Non giungendo ad un accordo il feretro, che era stato calato nel cortile, fu abbandonato dei membri della Congregazione e fu riportato in casa. Da lì finalmente, accompagnato dai colleghi dell’Università, fu sepolto nella chiesa dei padri dell’oratorio detta dei Gerolamini in Via dei Tribunali.
Il pensiero
Nell'ambiente culturale napoletano, molto interessato alle nuove dottrine filosofiche, Vico ebbe modo di entrare in rapporto con il pensiero di Cartesio, Hobbes, Gassendi, Malebranche e Leibniz anche se i suoi autori di riferimento risalivano piuttosto alle dottrine neoplatoniche, rielaborate dalla filosofia rinascimentale, aggiornate dalle moderne concezioni scientifiche di Francesco Bacone e Galileo Galilei e del pensiero giusnaturalistico moderno di Grozio e Selden. Questa varietà di interessi farebbe pensare alla formazione di un pensiero eclettico in Vico che invece giunse alla formulazione di una originale sintesi tra una razionalità sperimentatrice e la tradizione platonica e religiosa.De antiquissima Italorum sapientia
Il De antiquissima doveva constare di tre parti: il Liber metaphysicus, che uscì nel 1710 senza l'appendice riguardante la logica che, nell'intenzione di Vico, avrebbe dovuto avere; il Liber Physicus, che Vico pubblicò sotto forma di opuscolo col titolo De aequilibrio corporis animantis nel 1713, che andò smarrito, ma ampiamente riassunto nella Vita; ed infine il Liber moralis, di cui Vico non abbozzò nemmeno il testo. Nel De antiquissima Vico, considerando il linguaggio come oggettivazione del pensiero, è convinto che dall'analisi etimologica di alcune parole latine si possano rintracciare originarie forme del pensiero: applicando questo originale metodo, Vico risale ad un antico sapere filosofico delle primitive popolazioni italiche.Il fulcro di queste arcaiche concezioni filosofiche è la convinzione antichissima che
«Latinis "verum" et "factum" reciprocantur, seu , ut scholarum vulgus loquitur, convertuntur»
«Per i Latini il "vero" e il "fatto" sono reciproci, ossia, come afferma il volgo delle scuole, si scambiano di posto.»
che cioè «il criterio e la regola del vero consiste nell'averlo fatto»: per cui possiamo dire ad esempio di conoscere le proposizioni matematiche perché siamo noi a farle tramite postulati, definizioni, ma non potremo mai dire di conoscere nello stesso modo la natura perché non siamo noi ad averla creata.
Conoscere una cosa significa rintracciarne i principi primi, le cause, poiché, secondo l'insegnamento aristotelico, veramente la scienza è «scire per causas» ma questi elementi primi li possiede realmente solo chi li produce, «provare per cause una cosa equivale a farla».
Le obiezioni a Cartesio
Il principio del verum ipsum factum non era una nuova ed originale scoperta di Vico ma era già presente nell'occasionalismo, nel metodo baconiano che richiedeva l'esperimento come verifica della verità, nel volontarismo scolastico che, tramite la tradizione scotista, era presente nella cultura filosofica napoletana del tempo di Vico. La tesi fondamentale di queste concezioni filosofiche è che la piena verità di una cosa sia accessibile solo a colui che tale cosa produce; il principio del verum-factum, proponendo la dimensione fattiva del vero, ridimensiona le pretese conoscitive del razionalismo cartesiano che Vico inoltre giudica insufficiente come metodo per la conoscenza della storia umana, che non può essere analizzata solo in astratto, perché essa ha sempre un margine di imprevedibilità.Vico però si serve di quel principio per avanzare in modo originale le sue obiezioni alla filosofia cartesiana trionfante in quel periodo. Il cogito cartesiano infatti potrà darmi certezza della mia esistenza ma questo non vuol dire conoscenza della natura del mio essere, coscienza non è conoscenza: avrò coscienza di me ma non conoscenza poiché non ho prodotto il mio essere ma l'ho solo riconosciuto.
«L'uomo, egli dice, può dubitare se senta, se viva, se sia esteso, e infine in senso assoluto, se sia; a sostegno della sua argomentazione escogita un certo genio ingannatore e maligno...Ma è assolutamente impossibile che uno non sia conscio di pensare, e che da tale coscienza non concluda con certezza che egli è. Pertanto Renato (René Descartes) svela che il primo vero è questo: "Penso dunque sono"»
(Giambattista Vico, De antiquissima Italorum sapientia in Opere filosofiche a cura di P.Cristofolini, Firenze, Sansoni 1971, p.70)
Il criterio del metodo cartesiano dell'evidenza procurerà dunque una conoscenza chiara e distinta, che però per Vico non è scienza se non è capace di produrre ciò che conosce. In questa prospettiva, dell'essere umano e della natura solo Dio, creatore di entrambi, possiede la verità.
Mentre quindi la mente umana procedendo astrattamente nelle sue costruzioni, come accade per la matematica, la geometria crea una realtà che le appartiene, essendo il risultato del suo operare, giungendo così a una verità sicura, la stessa mente non arriva alle stesse certezze per quelle scienze di cui non può costruire l'oggetto come accade per la meccanica, meno certa della matematica, la fisica meno certa della meccanica, la morale meno certa della fisica.
«Noi dimostriamo le verità geometriche poiché le facciamo, e se potessimo dimostrare le verità fisiche le potremmo anche fare»
(Ibidem pag.82)
Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera
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