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Giordano Bruno
(✶1548 †1600)
Il ritorno in Italia
Nell'agosto 1591 Bruno è a Venezia. Che egli sia tornato in Italia spinto dall'offerta di Mocenigo non è affatto sicuro, tant'è che passeranno diversi mesi prima che egli accetti l'ospitalità del patrizio. In quel periodo Bruno, quarantatreenne, non era certo un uomo a cui mancavano i mezzi, anzi, egli era considerato «omo universale», pieno di ingegno e ancora nel pieno del suo momento creativo. A Venezia Bruno si trattenne solo pochi giorni per poi recarsi a Padova e incontrare Besler, il suo copista di Helmstedt. Qui tenne per qualche mese lezioni agli studenti tedeschi che frequentavano quella Università e sperò invano di ottenervi la cattedra di matematica, uno dei possibili motivi per cui Bruno tornò in Italia. Compone anche le Praelectiones geometricae, l'Ars deformationum, il De vinculis in genere, pubblicati postumi, e il De sigillis Hermetis et Ptolomaei et aliorum, andato perduto.A novembre, con il ritorno di Besler in Germania per motivi familiari, Bruno tornò a Venezia e fu solo verso la fine del marzo 1592 che egli si stabilì in casa del patrizio veneziano, che era interessato alle arti della memoria e alle discipline magiche. Il 21 maggio Bruno informò il Mocenigo di voler tornare a Francoforte per stampare delle sue opere: questi pensò che Bruno cercasse un pretesto per abbandonare le lezioni e il giorno dopo lo fece sequestrare in casa dai suoi servitori. Il giorno successivo, il 23 maggio, Mocenigo presentò all'Inquisizione una denuncia scritta, accusando Bruno di blasfemia, di disprezzare le religioni, di non credere nella Trinità divina e nella transustanziazione, di credere nell'eternità del mondo e nell'esistenza di mondi infiniti, di praticare arti magiche, di credere nella metempsicosi, di negare la verginità di Maria e le punizioni divine.
Quel giorno stesso, la sera del 23 maggio del 1592, Giordano Bruno fu arrestato e tratto nelle carceri dell'Inquisizione di Venezia, in San Domenico a Castello.
Il processo e la condanna
«Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam.»
«Forse tremate più voi nel pronunciare contro di me questa sentenza che io nell'ascoltarla.»
(Giordano Bruno rivolto ai giudici dell'Inquisizione)
Naturalmente Bruno sa che la sua vita è in gioco e si difende abilmente dalle accuse dell'Inquisizione veneziana: nega quanto può, tace, e mente anche, su alcuni punti delicati della sua dottrina, confidando che gli inquisitori non possano essere a conoscenza di tutto quanto egli abbia fatto e scritto, e giustifica le differenze fra le concezioni da lui espresse e i dogmi cattolici con il fatto che un filosofo, ragionando secondo «il lume naturale», può giungere a conclusioni discordanti con le materie di fede, senza dover per questo essere considerato un eretico. A ogni buon conto, dopo aver chiesto perdono per gli «errori» commessi, si dichiara disposto a ritrattare quanto si trovi in contrasto con la dottrina della Chiesa.
L'Inquisizione romana chiede però la sua estradizione, che viene concessa, dopo qualche esitazione, dal Senato veneziano. Il 27 febbraio 1593 Bruno è rinchiuso nelle carceri romane del Palazzo del Sant'Uffizio. Nuovi testi, per quanto poco affidabili, essendo tutti imputati di vari reati dalla stessa Inquisizione, confermano le accuse e ne aggiungono di nuove.
Giordano Bruno fu forse torturato alla fine di marzo 1597, secondo la decisione della Congregazione presa il 24 marzo, secondo un'ipotesi avanzata da Luigi Firpo e Michele Ciliberto] una circostanza negata invece da Andrea Del Col. Giordano Bruno non rinnegò i fondamenti della sua filosofia: ribadì l'infinità dell'universo, la molteplicità dei mondi, la non generazione delle sostanze - «queste non possono essere altro che quel che sono state, né saranno altro che quel che sono, né alla loro grandezza o sostanza s'aggionge mai, o mancarà ponto alcuno, e solamente accade separatione, e congiuntione, o compositione, o divisione, o translatione da questo luogo a quell'altro» - e il moto della Terra. A questo proposito spiega che «il modo e la causa del moto della terra e della immobilità del firmamento sono da me prodotte con le sue raggioni et autorità e non pregiudicano all'autorità della divina scrittura». All'obiezione dell'inquisitore, che gli contesta che nella Bibbia è scritto che la «Terra stat in aeternum» e il sole nasce e tramonta, risponde che vediamo il sole «nascere e tramontare perché la terra se gira circa il proprio centro»; alla contestazione che la sua posizione contrasta con «l'autorità dei Santi Padri», risponde che quelli «sono meno de' filosofi prattichi e meno attenti alle cose della natura».
Sostiene che la terra è dotata di un'anima, che le stelle hanno natura angelica, che l'anima non è forma del corpo; come unica concessione, è disposto ad ammettere l'immortalità dell'anima umana.
Il 12 gennaio 1599 è invitato ad abiurare otto proposizioni eretiche, nelle quali si comprendevano la sua negazione della creazione divina, dell'immortalità dell'anima, la sua concezione dell'infinità dell'universo e del movimento della Terra, dotata anche di anima, e di concepire gli astri come angeli. La sua disponibilità ad abiurare, a condizione che le proposizioni siano riconosciute eretiche non da sempre, ma solo ex nunc, è respinta dalla Congregazione dei cardinali inquisitori, tra i quali il Bellarmino. Una successiva applicazione della tortura, proposta dai consultori della Congregazione il 9 settembre 1599, fu invece respinta da papa Clemente VIII. Nell'interrogatorio del 10 settembre Bruno si dice ancora pronto all'abiura, ma il 16 cambia idea e infine, dopo che il Tribunale ha ricevuto una denuncia anonima che accusa Bruno di aver avuto fama di ateo in Inghilterra e di aver scritto il suo Spaccio della bestia trionfante direttamente contro il papa, il 21 dicembre rifiuta recisamente ogni abiura, non avendo, dichiara, nulla di cui doversi pentire.
L'8 febbraio 1600, dinnanzi ai cardinali inquisitori e dei consultori Benedetto Mandina, Francesco Pietrasanta e Pietro Millini, è costretto ad ascoltare in ginocchio la sentenza di condanna al rogo; terminata la lettura della sentenza, secondo la testimonianza di Caspar Schoppe, il Bruno si alza e ai giudici indirizza la storica frase: «Maiori forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam» («Forse tremate più voi nel pronunciare contro di me questa sentenza che io nell'ascoltarla»). Dopo aver rifiutato i conforti religiosi e il crocefisso, il 17 febbraio, con la lingua in giova - serrata da una morsa perché non possa parlare - viene condotto in piazza Campo de' Fiori, denudato, legato a un palo e arso vivo. Le sue ceneri saranno gettate nel Tevere.
Il monumento a Roma
Secondo Aldo Mola Giordano Bruno divenne, nella seconda metà del XIX secolo, la bandiera ufficiale della Massoneria, che ne strumentalizzò il pensiero e ne interpretò la vicenda in maniera mitica ed allegorica. Nel penultimo decennio del 1800 un Comitato internazionale, costituito fra gli altri da Ernest Renan, Victor Hugo, Herbert Spencer, Silvio Spaventa, Henrik Ibsen e Walt Whitman , si fece promotore dell'iniziativa di erigere un monumento in memoria del filosofo, proprio nei pressi del punto dove venne bruciato vivo sul rogo. Il potere ecclesiastico si oppose fermamente a tale iniziativa, e la cosa degenerò quando, nel gennaio 1888, una manifestazione di studenti in favore del monumento fu repressa dalla polizia. A dicembre finalmente il Consiglio comunale concesse l'autorizzazione e lo spazio in piazza Campo de' Fiori, dopo che anche l'allora capo del governo Francesco Crispi ebbe espresso parere favorevole; con ciò l'anticlericale Crispi affermò di aver voluto «imprimere su Roma il suggello della modernità», in quanto capitale del Regno d'Italia ormai sottratta al potere papale. Il 9 giugno 1889, giorno di Pentecoste, il monumento, opera dello scultore Ettore Ferrari, venne finalmente inaugurato. Il Papa Leone XIII, che aveva addirittura minacciato di lasciare Roma, rimase l'intero giorno a digiunare inginocchiato davanti alla statua di San Pietro, pregando contro «la lotta ad oltranza contro la religione cattolica». Alla base del monumento si legge un'iscrizione del filosofo Giovanni Bovio, oratore ufficiale della cerimonia di inaugurazione: «A Bruno, il secolo da lui divinato qui dove il rogo arse».Nel ventennio fascista, dopo i Patti lateranensi del 1929, alcuni cattolici intransigenti chiesero a Mussolini la rimozione della statua e l'erezione al suo posto di una sorta di "cappella espiatoria", ma il duce, memore dei disordini del 1888 e spinto dal filosofo Giovanni Gentile, ideologo del fascismo e grande ammiratore di Bruno, rifiutò la richiesta.
Ogni anno, a Campo de' Fiori, ogni 17 febbraio, si sono svolti molti raduni di laici e militanti, per manifestare contro le ingerenze clericali o semplicemente per commemorare il rogo del filosofo. Solo durante il fascismo questi raduni e cerimonie vennero vietati.
Giordano Bruno e la Chiesa
A distanza di 400 anni, il 18 febbraio 2000 il papa Giovanni Paolo II, tramite una lettera del suo segretario di Stato Sodano inviata ad un convegno che si svolse a Napoli, espresse profondo rammarico per la morte atroce di Giordano Bruno, pur non riabilitandone la dottrina: anche se la morte di Giordano Bruno "costituisce oggi per la Chiesa un motivo di profondo rammarico", tuttavia "questo triste episodio della storia cristiana moderna" non consente la riabilitazione dell'opera del filosofo nolano arso vivo come eretico, perché "il cammino del suo pensiero lo condusse a scelte intellettuali che progressivamente si rivelarono, su alcuni punti decisivi, incompatibili con la dottrina cristiana".Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera
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