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Isabella di Morra
(✶~1520 †~1545-46)
Conseguenze
Dopo il massacro i tre fratelli furono costretti a rifugiarsi in Francia per sfuggire all'ira del viceré Pedro de Toledo che fece setacciare l'intera provincia. Essi raggiunsero Scipione e il padre che mancava da circa venti anni da casa. Il biografo di famiglia Marcantonio sostenne che suo nonno Giovanni Michele fosse deceduto prima di Isabella, ma Benedetto Croce dimostrò che morì dopo la tragedia, poiché continuò a percepire la pensione dal Re di Francia almeno fino al 1549. Scipione, benché scioccato e disgustato dagli omicidi, decise infine di aiutare i propri fratelli a sistemarsi in Francia.
Di Fabio non si hanno notizie certe, Decio si fece prete e Cesare sposò una nobildonna francese, Gabriella Faulcon. Scipione, uomo influente che ricoprì l'incarico di segretario della regina Caterina de' Medici, verrà avvelenato da altri cortigiani, poiché invidiosi del suo ruolo privilegiato. La stessa regina, sdegnata per l'accaduto, punirà i colpevoli.
Nel frattempo i fratelli rimasti a Favale furono processati. Marcantonio non risultò essere tra gli ideatori del delitto; ciononostante, fu imprigionato per alcuni mesi e in seguito rilasciato. In quello stesso 1546 sposò Verdella Capece Galeota, dalla quale ebbe poi sette figli. Camillo, l'ultimogenito, fu invece completamente assolto dall'accusa di complicità poiché totalmente estraneo ai fatti.
Dalle ricerche condotte da Gaetana Rossi su documenti d'archivio emerge che l’assassinio della poetessa fu compiuto dai fratelli quando la madre era ancora viva e presente nel castello di Favale.
Opere
Gli scritti di Isabella furono scoperti dagli ufficiali del viceré di Napoli e "messi agli atti", durante l'indagine che seguì l'uccisione di Diego Sandoval de Castro, allorché il castello di Valsinni fu perquisito. Nonostante il corpus estremamente esiguo a noi pervenuto (dieci sonetti e tre canzoni), la poesia di Isabella è considerata una delle più intense e toccanti della lirica cinquecentesca. Molte sono state le letture del suo canzoniere in chiave meramente femminista (tenuto conto del limitato numero di donne presenti nella letteratura italiana del tempo), specialmente in ambito statunitense, senza che tenessero in sufficiente considerazione il retroterra culturale e storico dell'epoca. Non esistendo un'edizione delle liriche curata dalla poetessa, non si conosce con certezza l’ordine temporale dato alle sue opere e i tredici componimenti del canzoniere, considerato «un'autentica autobiografia in versi», sono stati suddivisi in due stagioni poetiche: la prima segnata dal malessere e dalla speranza di evasione, la seconda (comprendente l'ultimo sonetto e le tre canzoni) dalla rassegnazione e dal conforto nella religione.
Sonetti
I fieri assalti di crudel fortuna
Sacra Giunone, se i volgari cuori
D'un alto monte onde si scorge il mare
Quanto pregiar ti puoi, Siri mio amato
Non solo il ciel vi fu largo e cortese
Fortuna che sollevi in alto stato
Ecco ch'una altra volta, o valle inferna
Torbido Siri, del mio mal superbo
Se alla propinqua speme nuovo impaccio
Scrissi con stile amaro, aspro e dolente
Canzoni
Poscia ch'al bel desir troncate hai l'ale
Signore, che insino a qui, tua gran mercede
Quel che gli giorni a dietro
Poetica
Stile
Isabella è stata inserita nella corrente del petrarchismo, in cui le donne, sebbene di estrazione nobiliare, iniziarono ad acquistare importanza in campo culturale e sociale. Il tema dominante era l'amore con le gioie e i lamenti che ne scaturivano, omaggi alla persona amata e la ricerca di un sentimento più puro. Poco ebbe in comune Isabella con le altre donne poetesse del suo tempo, poiché mai ebbe l'opportunità di far valere le proprie doti e di ottenere la celebrità e il plauso presso le corti e le accademie, e qualsiasi emozione o sentimento d'amore è assente nella sua lirica. Isabella non canta l'amore perché probabilmente non ha mai amato nessuno. L'unico breve cenno all'amore è il matrimonio, visto solamente come unica via possibile di liberazione e emancipazione.
Benché segua lo schema del sonetto petrarchesco obbediente alle regole dettate da Pietro Bembo, Isabella si differenzia dalle sue coeve e dalla lirica petrarchesca in generale per la sua atmosfera tetra e malinconica, strettamente legata alla sua esistenza tormentata, rivelando, secondo Giacinto Spagnoletti, «una notevole originalità e carica drammatica». Oltre ai diversi richiami al Petrarca, l'influenza di Dante Alighieri è evidente, la quale conferisce un tono tenebroso alla sua poetica riconducibile all'Inferno della Divina Commedia, nonché di Jacopone da Todi per quanto riguarda la presenza di figure ed elementi legati alla poesia cristiana. Nulla di retorico o di scolastico ma un'autentica espressione del dramma umano.
Il suo stile da lei stessa definito «amaro, aspro e dolente», «ruvido e frale» e il suo «rozo inchiostro» lasciano intravedere la frustrazione di una persona elevata e oppressa in una società retrograda, desiderosa di vedere riconosciute le sue qualità di donna e poetessa e di auspicare un mondo sottratto alla violenza e ricondotto alla tolleranza.
La Fortuna e il mondo circostante
La Fortuna assume il ruolo di antagonista nelle sue opere, la fonte di tutti i suoi mali, la cui persecuzione nei confronti della poetessa iniziò «cominciando dal latte e dalla cuna». La figura della Fortuna, vista in maniera positiva nel periodo rinascimentale, è invece per Isabella una forza oscura e incontrollabile di natura pagana o medievale. L'«acerba e cruda Diva», essendo donna come lei, tradisce il gentil sesso venendo meno alle virtù spesso attribuite alle donne come sensibilità e delicatezza e, per di più, sconvolge per la sua malvagità, opprimendo i nobili cuori e corrompendo gli animi degli esseri umani.
Il ritratto del paesaggio circostante è fosco e amaro: una «valle inferna» composta da «orride ruine», «selve incolte», «solitarie grotte», «vili ed orride contrate» abitate da «gente irrazional, priva d’ingegno», esprimendo tutto il suo odio verso «il denigrato sito». Cercò in tutti i modi una soluzione e una speranza per evadere da quel mondo che la soffocava e che non era capace di comprenderla, dove aveva passato tutta la sua «fiorita etade secca ed oscura, solitaria ed erma», «senza loda alcuna» e non sentendosi mai apprezzare per la sua «beltade».
Ella si rivolge alla natura, invitando gli elementi che la circondano a piangere con lei il suo «miserando fine», visto da alcuni come il suo presagio di morte o semplicemente attendendo il naturale corso della sua infelice esistenza. Il fiume Siri (oggi noto come Sinni) che scorre vicino al suo castello, è, nel bene o nel male, il suo confidente e valvola di sfogo, implorandolo di farsi messaggero della sua sorte al padre qualora, lei morta, egli dovesse tornare. La giovane dichiara di serbare il proprio «nome infelice» alle onde del fiume con «esempio miserando e raro», un'espressione da alcuni interpretata come una meditazione al suicidio, benché ciò sembrerebbe improbabile, a detta di Adele Cambria, vista la coscienza religiosa e la particolare sensibilità che le vietano di compiere un gesto così estremo; e lo prega affinché possa sprigionare tutta la sua «crudel procella» al ritorno del padre, essendo ingrossato ed agitato dai suoi fiumi di lacrime: «i fiumi di Isabella».
Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera
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