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Torquato Tasso
(✶1544   †1595)

Siccome anche le stampe dell'Ingegneri presentavano delle imperfezioni e la Gerusalemme era ormai di dominio pubblico, bisognava approntare la versione migliore possibile, ma per far questo era necessaria l'autorizzazione e la collaborazione del Tasso. Così, seppur riluttante, il poeta diede il proprio consenso a Febo Bonnà, che diede alla luce la Gerusalemme liberata il 24 giugno 1581 a Ferrara, restituendola in modo ancora più preciso pochi mesi dopo.

Queste traversie editoriali addolorarono il Tasso, che avrebbe voluto mettere mano al poema in modo da renderlo conforme alla propria volontà. All'amarezza per le pubblicazioni seguì ben presto quella che gli fu causata dalla polemica con la neonata Accademia della Crusca. La diatriba non fu scatenata, per la verità, né dal poeta né dall'Accademia. La sua origine va ricercata nel dialogo Il Carrafa, o vero della epica poesia, che il poeta capuano Camillo Pellegrino stampò presso l'editore fiorentino Sermartelli all'inizio di novembre del 1584. Nel dialogo Torquato viene esaltato assieme alla sua opera, in quanto fautore di una poesia etica e fedele ai dettami aristotelici, mentre l'Ariosto viene duramente condannato a causa della leggerezza, delle fantasiose invenzioni e dell'eccessiva dispersione che si possono riscontrare nell'Orlando Furioso.

Il testo provocò la reazione dell'Accademia, che rispose nel febbraio dell'anno seguente con la Difesa dell'Orlando Furioso degli Accademici della Crusca, stroncando il Tasso ed esaltando invece «il palagio perfettissimo di modello, magnificentissimo, ricchissimo, e ornatissimo», che era il Furioso. La Difesa fu fondamentalmente opera di Leonardo Salviati e di Bastiano de' Rossi. Tasso decise di scendere in campo con l'Apologia in difesa della Gerusalemme Liberata, edita a Ferrara dal Licino il 20 luglio. Rivendicando la necessità di un'invenzione che si fondi sulla storia, il poeta si opponeva alle opinioni dei paladini del volgare fiorentino, e respingeva le accuse di un lessico intriso di barbarismi e poco chiaro.

La polemica continuò, visto che il Salviati replicò in settembre con la Risposta all'Apologia di Torquato Tasso (testo noto anche come Infarinato primo), cui seguirono un nuovo opuscolo di Pellegrino e un Discorso del Nostro, dopo di che - se si esclude un ulteriore scritto del Salviati, l'Infarinato secondo (1588) - per qualche tempo le acque si calmarono, ma la querelle tra ariosteschi e tasseschi proseguì fino al secolo successivo, e fu una delle più infiammate della storia della letteratura italiana.

Durante la reclusione Tasso scrisse principalmente discorsi e dialoghi: fra i primi quello Della gelosia (redatto già nel 1577 ma pubblicato nel 1585), Dell'amor vicendevole tra 'l padre e 'l figliuolo (1581), Della virtù eroica e della carità (1583), Della virtù femminile e donnesca (1583), Dell'arte del dialogo (1586), Il Secretario (1587), cui si deve aggiungere il Discorso intorno alla sedizione nata nel regno di Francia l'anno 1585 (composto nel 1585, edito solo nel 1817) e il Trattato della Dignità, già iniziato a Torino, come si è visto.

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Queste opere sviluppano tematiche morali, psicologiche o strettamente religiose. La virtù cristiana è proclamata come superiore alla pur nobile virtù eroica, si afferma la comune origine di amore e gelosia, si valutano i talenti specifici della donna, il tutto arricchito dal racconto di esperienze personali che giustificano l'opinione dell'autore. Vengono affrontate anche questioni politiche, in special modo nel Secretario, diviso in due parti, la prima dedicata a Cesare d'Este, la seconda ad Antonio Costantini. Qui, nella descrizione del principe ideale, si enucleano alcune caratteristiche come la clemenza (chiaro il riferimento alla propria condizione), l'esser filosofo, e soprattutto «un gentiluomo a la cui fede ed al cui sapere si possono confidare gli Stati e la vita e l'onor del principe».

Più copiosa ancora fu la composizione di dialoghi, scritti sotto il nume ideale di Platone, ma paragonabili più obiettivamente a quelli del sedicesimo secolo. Quasi ogni tematica morale viene sviscerata in una serie davvero lunga di opere più o meno prolisse e più o meno felici.

Tasso scrisse, nell'ordine, Il Forno, o vero de la Nobiltà (1579, 1581, modificato nel 1586 e ripubblicato l'anno seguente); il Gonzaga, o vero del Piacer onesto (1580, 1583), in seguito rivisto e stampato con il titolo Il Nifo, o vero del piacere; Il Messaggero (1580, 1582. Qui immaginò di interagire amichevolmente con il folletto da cui si credeva perseguitato nella realtà. Questo dialogo ispirò la celebre operetta morale leopardiana Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare), con una seconda lezione del 1586; Il padre di famiglia (1580, 1583, ispirato a un gentiluomo che lo ospitò a Borgo Sesia prima dell'arrivo a Torino); Il cavalier amante e la gentildonna amata (1580, 1583, con dedica a Giulio Mosti, giovane ammiratore del poeta); Romeo o vero del giuoco (1580, 1581), rivisto e dato alle stampe con titolo Il Gonzaga secondo, o vero del giuoco (1581, 1582); La Molza, o vero de l'Amore (1583, 1587, prende spunto dalla conoscenza che il Tasso fece della celebre poetessa Tarquinia Molza a Modena, nel dicembre 1576, ed è dedicato a Marfisa d'Este); Il Malpiglio, o vero della corte (1583, 1586, con riferimento al gentiluomo ferrarese Lorenzo Malpiglio); Il Malpiglio secondo o vero del fuggir la moltitudine (1583, 1666); Il Beltramo, overo de la Cortesia (1584, 1586); Il Rangone, o vero de la Pace (1584, 1586, in risposta a uno scritto di Fabio Albergati); Il Ghirlinzone, o vero l'Epitafio (1585, 1586); Il Forestiero napolitano, o vero de la Gelosia (1585, 1586); Il Cataneo, o vero de gli Idoli (1585, 1586) e, infine, La Cavalletta, o vero de la poesia toscana (1584, 1587).

In tutto questo non aveva dimenticato l'opera principe, dimostrando di avere al riguardo idee piuttosto lontane da quella che sarà la realizzazione finale. A Lorenzo Malpiglio espose intenzioni sostanzialmente opposte agli interventi che avrebbe apportato negli anni successivi: parla di portare la Liberata da venti a ventiquattro canti (secondo l'idea originaria) e di accrescere il numero delle stanze, tagliando anche dei passaggi ma con il risultato che «la diminuzione sarà molto minor de l'accrescimento».

Nel 1586 qualche segnale, magari anche dettato da semplice interesse, lasciava intravvedere un astio meno severo nei confronti del Nostro. Prima della reclusione, nel marzo del 1577, a Comacchio era stata rappresentata una commedia tassesca alla presenza della corte. Ora Virginia de' Medici voleva che il testo fosse perfezionato e completato per essere interpretato durante i festeggiamenti del suo matrimonio con Cesare d'Este. Tasso si mise al lavoro ed esaudì la richiesta. L'opera fu poi pubblicata nel 1603 e ricevette il titolo - Gli intrichi d'amore - dal Perini, uno degli attori dell'Accademia di Caprarola, che aveva messo in scena la commedia nel 1598.

L'opera, ricolma di intrecci amorosi e di agnizioni secondo il costume dell'epoca, è sofisticata e inverosimile, ma non mancano pagine vivaci ed episodi ispirati all'Aminta. Vi si possono inoltre vedere alcuni elementi che confluiranno nella commedia dell'arte: il personaggio del Napoletano, parlando in dialetto e «profondendosi in spiritosaggini sbardellate», richiama alla mente la futura maschera di Pulcinella. La critica è stata piuttosto concorde nel ritenerla infelice, tutta una goffaggine pedantesca e superificiale, nel giudizio di Francesco d'Ovidio.

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Dopo la prigionia: le delusioni, le sofferenze, le peregrinazioni

Il 13 luglio 1586 finì la prigionia: Tasso venne affidato a Vincenzo Gonzaga, che lo volle alla sua corte di Mantova. Nelle intenzioni di Alfonso, Tasso doveva restare presso il figlio di Guglielmo Gonzaga solo per un breve periodo, ma di fatto il poeta non tornò più a Ferrara, e restò presso Vincenzo, in un ambiente in cui conobbe Ascanio de' Mori da Ceno, diventandone amico.

A Mantova Tasso ritrovò qualche barlume di tranquillità; riprese in mano il Galealto re di Norvegia, la tragedia che aveva lasciato interrotta alla seconda scena del secondo atto - e che aveva frattanto avuto un'edizione nel 1582 -, e la trasformò nel Re Torrismondo, conglobando nei primi due atti quanto aveva precedentemente scritto ma cambiando i nomi, e procedendo alla stesura dei tre atti successivi in modo da arrivare ai cinque canonici. Quando nell'agosto si recò a Bergamo, ritrovando amici e parenti, si mise subito in azione per dare alle stampe la tragedia, e l'opera uscì, a cura del Licino e per i tipi del Comin Ventura, con dedica a Vincenzo Gonzaga, nuovo duca di Mantova.

Si trattava comunque di una "libertà vigilata", e i fatti dell'autunno 1587 lo dimostrano chiaramente. Dopo essere tornato a Mantova, deluso e preoccupato di una possibile venuta di Alfonso, Tasso andò a Bologna e a Roma senza chiedere al Gonzaga l'autorizzazione e questi, sotto la pressione del duca di Ferrara, tentò in ogni modo di farlo tornare indietro. Antonio Costantini, sedicente amico del poeta che metteva al primo posto l'ambizione e l'obiettivo di essere tenuto in onore presso la corte mantovana, e Scipione Gonzaga si mobilitarono, ma Torquato capì la situazione e rifiutò di ritornare, rendendo impossibile qualsiasi mossa, dal momento che un intervento che lo riportasse nel ducato mantovano con la forza non sarebbe mai stato tollerato dal Pontefice. Il fatto che nessuno impedisse il viaggio a Bergamo mentre ci fosse una mobilitazione generale per allontanare il poeta dall'Urbe rimane comunque un segnale che pare ulteriormente ridimensionare il peso della presunta follia di Torquato nelle preoccupazioni dei duchi del settentrione.

Nel corso del tragitto Tasso passò da Loreto, raccogliendosi in preghiera nel santuario e concependo quella canzone «a la gloriosa Vergine» che può forse richiamare il Petrarca della Canzone alla Vergine in qualche scelta lessicale, ma, in mezzo alla lode e alla supplica, è tanto più intessuta di travaglio e sofferenza:

«Vedi, che fra' peccati egro rimango,
qual destrier, che si volve
nell'alta polve, e nel tenace fango.»

Torquato fu a Roma nell'autunno 1587 e fino alla primavera successiva. L'irrequietudine era di nuovo alle stelle: le lettere registrano le sue richieste di denaro e le lamentele per la propria condizione di salute. Il poeta è ormai disilluso, e fa meno affidamento sulla possibilità che gli altri lo aiutino. Come scrisse alla sorella in una lettera del 14 novembre, gli uomini «non hanno voluto sanarmi, ma ammaliarmi». Tuttavia, il Nostro è in preda al bisogno materiale e continua ad autoumiliarsi, scrivendo versi encomiastici per Scipione Gonzaga, divenuto cardinale, senza ottenere alcunché. Anche la speranza di essere ricevuto dal papa Sisto V viene delusa, nonostante le lodi che Tasso rivolge al pontefice in varie poesie, confluite assieme ad altre del periodo in un volumetto del 1589, stampato a Venezia.

Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera

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