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Vittorio Alfieri
(✶1749   †1803)

«Volli, e volli sempre, e fortissimamente volli»
(dalla Lettera responsiva a Ranieri de' Calsabigi, 1783)
Il conte Vittorio Amedeo Alfieri (Asti, 16 gennaio 1749 – Firenze, 8 ottobre 1803) è stato un drammaturgo, poeta, scrittore e attore teatrale italiano.)

«Nella città di Asti, in Piemonte, il dì 17 gennaio dell'anno 1749, io nacqui di nobili, agiati ed onesti parenti». Così Alfieri presenta se stesso nella Vita scritta da esso, autobiografia stesa, per la maggior parte, intorno al 1790, ma completata solo nel 1803. Alfieri ebbe un'attività letteraria breve ma prolifica e intensa; il suo carattere tormentato, oltre a delineare la sua vita in senso avventuroso, fece di lui un precursore delle inquietudini romantiche.

Come la gran parte dei piemontesi dell'epoca, Vittorio Alfieri ebbe come L1 il piemontese. Giacché di nobili origini, apprese dignitosamente il francese e l'italiano, cioè il toscano classico. Quest'ultimo, tuttavia, risentiva, inizialmente, degli influssi delle altre due lingue che conosceva, di cui lui stesso si rendeva conto e che lo portarono, al fine di spiemontesizzarsi e sfrancesizzarsi, o disfrancesarsi, ad immergersi nella lettura dei classici in lingua italiana, a compilare piccoli vocabolari d'uso in cui alle parole e alle espressioni francesi o piemontesi corrispondevano "voci e modi toscani" e a compiere una serie di viaggi letterari a Firenze. Dopo una giovinezza inquieta ed errabonda, si dedicò con impegno alla lettura e allo studio di Plutarco, Dante, Petrarca, Machiavelli e degli illuministi come Voltaire e Montesquieu: da questi autori ricavò una visione personale razionalista e classicista, convintamente anti-tirannica e in favore di una libertà ideale, al quale unì l'esaltazione del genio individuale tipicamente romantica.

Si entusiasmò per la Rivoluzione francese, durante il suo soggiorno parigino, nel 1789, ma ben presto, a causa del degenerare della rivoluzione dopo il 1792, il suo atteggiamento favorevole si trasformò in una forte avversione per la Francia. Tornò in Italia, dove continuò a scrivere, opponendosi idealmente al regime di Napoleone, e dove morì, a Firenze, nel 1803, venendo sepolto tra i grandi italiani nella Basilica di Santa Croce. Già dagli ultimi anni della sua vita Alfieri divenne un simbolo per gli intellettuali del Risorgimento, a partire da Ugo Foscolo.

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Infanzia e educazione

«Rimasto dunque io solo di tutti i figli nella casa materna, fui dato in custodia ad un buon prete, chiamato don Ivaldi…»
(da Vita di V. Alfieri, Epoca prima, 1755, capitolo II)

Vittorio Alfieri nacque dal conte di Cortemilia Antonio Amedeo Alfieri, membro della nobile famiglia omonima, e dalla savoiarda Monica Maillard de Tournon (già vedova del marchese Alessandro Cacherano Crivelli). La madre aveva avuto già due figli dalle prime nozze: Angela Maria Eleonora e Vittorio Antonio che morirà giovanissimo nel 1758.

Il padre morì di polmonite nel primo anno di vita di Vittorio e la madre si risposò in terze nozze nel 1750 con il cavaliere Carlo Giacinto Alfieri di Magliano, un parente del defunto marito. Visse fino all'età di nove anni e mezzo ad Asti a Palazzo Alfieri (la residenza paterna), affidato ad un precettore, senza alcuna compagnia.

La sorella Giulia fu mandata presso il monastero astigiano di Sant'Anastasio. Dal terzo marito la madre avrà Anna Maria Giuseppina Barbara, Giuseppina Francesca, Pietro Lodovico Antonio, Giuseppe Francesco Agostino e Francesco Maria Giovanni. Come scrive egli stesso nell'autobiografia, era un bambino molto sensibile, a tratti vivace, solitario, insofferente alle regole, descritto dai biografi moderni come tendente alla nevrosi, una condizione che si protrarrà per tutta la vita, causandogli spesso anche disturbi psicosomatici.

Nel 1758, per volere del suo tutore, lo zio Pellegrino Alfieri, governatore di Cuneo e nel 1762 viceré di Sardegna, fu iscritto all'Accademia Reale di Torino. Viene ospitato dapprima dallo stesso zio Pellegrino; ma è troppo vivace, per cui viene fatto entrare il primo agosto, invece di ottobre, nell'Accademia; questo lo fece sentire abbandonato fra estranei, in un luogo in cui "nessuna massima di morale e nessun ammaestramento di vita" veniva dato, perché "gli educatori stessi non conoscevano il mondo né per teoria né per pratica". I primi nove anni sono soprannominati dallo stesso Alfieri come "nove anni di vegetazione", privi di vere conseguenze, ma pure pieni di fatti e sentimenti significativi e rivelatori già di un carattere preciso e volitivo.

Alfieri all'Accademia compì i suoi studi di grammatica, retorica, filosofia, legge. Venne a contatto con molti studenti stranieri, i loro racconti e le loro esperienze lo stimolarono facendogli sviluppare la passione per i viaggi. Egli definì questi anni come "otto anni di ineducazione; asino, fra asini e sotto un asino", in cui si sentiva "ingabbiato". Viene afflitto anche da una malattia dei capelli, che lo costringe a tagliarli e a portare la parrucca per breve tempo. Nel 1762, grazie allo zio Benedetto Alfieri, assiste per la prima volta ad uno spettacolo teatrale rappresentato al Teatro Carignano di Torino.

Dopo la morte dello zio, nel 1766 lasciò l'Accademia non terminando il ciclo di studi che lo avrebbero portato all'avvocatura e si arruolò nell'Esercito, diventando "portinsegna" (cioè "alfiere", tradizione di famiglia da cui derivava appunto il cognome, secondo una leggenda) nel reggimento provinciale di Asti. Rimase nell'esercito fino al 1774 e si congedò col grado di luogotenente. In questo periodo scoprirà anche un'altra delle sue passioni, l'amore per i cavalli, che lo accompagnerà sempre.]

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I viaggi

«A ogni conto voleva io assolutamente morire, ma non articolai però mai tal parola a nessuno; e fingendomi ammalato perché l'amico mio [un giovane che l'accompagnava, assieme al domestico Elia, ndr] mi lasciasse, feci chiamare il chirurgo perché mi cavasse il sangue, venne e me lo cavò.»
(da Vita di V. Alfieri, Epoca terza, 1768, capitolo VI)

Tra il 1766 e il 1772, Alfieri cominciò un lungo vagabondare in vari stati dell'Europa. Visitò l'Italia da Milano a Napoli sostando a Firenze e a Roma, nel 1767 giunse a Parigi dove conobbe, tra gli altri, Luigi XV che gli parve un monarca tronfio e sprezzante. Deluso anche dalla città, a gennaio del 1768 giunse a Londra e, dopo un lungo giro nelle province inglesi, andò nei Paesi Bassi. A L'Aia visse il suo primo vero amore con la moglie del barone Imhof, Cristina. Costretto a separarsene per evitare uno scandalo, tentò il suicidio, fallito per il pronto intervento di Francesco Elia, il suo fidato servo, che lo seguiva in tutti i suoi viaggi.

Rientrò a Torino, dove alloggiò in casa di sua sorella Giulia, che nel frattempo aveva sposato il conte Giacinto Canalis di Cumiana. Vi rimase fino al compimento del ventesimo anno di età, quando, entrando in possesso della sua cospicua eredità, decise di lasciare nuovamente l'Italia. Fallisce intanto un tentativo del cognato di combinargli un matrimonio con una ragazza nobile e ricca, la quale, pur affascinata dal giovane "dai capelli e dalla testa al vento", alla fine farà cadere la sua scelta su un altro giovane dall'indole più tranquilla.

Tra il 1769 e il 1772, in compagnia del fidato Elia, compì il secondo viaggio in Europa: partendo da Vienna, passò per Berlino, incontrando con fastidio e rabbia Federico II, toccò la Svezia e la Finlandia, giungendo in Russia, dove non volle neppure essere presentato a Caterina II, avendo sviluppato una profonda avversione al dispotismo. Raggiunse Londra e, nell'inverno del 1771, conobbe Penelope Pitt, moglie del visconte Edward Ligonier, conosciuta nella precedente visita, con la quale instaurò una relazione amorosa.

Il visconte, scoperta la tresca, sfidò a duello l'Alfieri. Lo scandalo che seguì e il processo per adulterio pregiudicarono una possibile carriera diplomatica dell'Alfieri, che in seguito a questi fatti fu costretto a lasciare la donna e la terra d'Albione. Riprese così il suo girovagare, prima nei Paesi Bassi, poi in Francia, Spagna e infine Portogallo, dove a Lisbona incontrò l'abate Tommaso Valperga di Caluso, che lo spronò a proseguire la sua carriera letteraria. Nel 1772 cominciò il viaggio di ritorno.

Ritorno

Il ventiquattrenne Alfieri rientrò nel capoluogo piemontese dopo molto tempo di travagliato amore nel 1773 e si dedicò allo studio della letteratura, rinnegando in tal modo, secondo le sue stesse parole, «anni di viaggi e dissolutezze»; a Torino prese una casa in piazza San Carlo, la ammobiliò sontuosamente, ritrovò i suoi vecchi compagni di Accademia militare e di gioventù. Con loro istituì una piccola società che si riuniva settimanalmente in casa sua per «banchettare e ragionare su ogni cosa», la "Societé des Sansguignon", in questo periodo scrisse «cose miste di filosofia e d'impertinenza», per la maggior parte in lingua francese, tra cui l'Esquisse de Jugement Universél, ispirato agli scritti di Voltaire.

Ebbe anche una relazione con la marchesa Gabriella Falletti di Villafalletto, moglie di Giovanni Antonio Turinetti marchese di Priero. Tra il 1774 e il 1775, mentre assisteva la sua amica malata, portò a compimento la tragedia Antonio e Cleopatra, rappresentata a giugno di quello stesso anno a Palazzo Carignano, con successo.

Nel 1775 troncò definitivamente la liaison amorosa con la marchesa Falletti, e studiò e perfezionò la sua grammatica italiana riscrivendo le tragedie Filippo e Polinice, che in una prima stesura erano state scritte in francese. Per imporsi l'abbandono dell'amante si taglia il codino che tutti i nobili e i borghesi usavano portare, perché, vergognandosi di mostrarsi "tosato", non sarebbe uscito di casa, se non dopo molto tempo, evitando di andare a trovare la donna, dalla quale lo dividevano solo poche decine di metri.

Nell'aprile dell'anno seguente si recò a Pisa e Firenze per il primo dei suoi "viaggi letterari", dove iniziò la stesura dell'Antigone e del Don Garzia. Tornò in Toscana nel 1777, in particolare a Siena, dove conobbe quello che sarebbe diventato uno dei suoi più grandi amici, il mercante Francesco Gori Gandellini. Questi influenzò notevolmente le scelte letterarie dell'Alfieri, convincendolo ad accostarsi alle opere di Niccolò Machiavelli. Da queste nuove ispirazioni nacquero La congiura de' Pazzi, il trattato Della Tirannide, l'Agamennone, l'Oreste e la Virginia (che in seguito susciterà l'ammirazione del Monti). Per dedicarsi solo ed esclusivamente alla letteratura per lungo tempo, arrivò a farsi legare alla sedia da Elia, in un famosissimo episodio.

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La contessa d'Albany

«Un dolce foco negli occhi nerissimi accoppiato (che raro addiviene) a candidissima pelle e biondi capelli davano alla di lei bellezza un risalto, da cui difficile era di non rimanere colpito o conquisto.»
(da Vita di V. Alfieri, Epoca quarta, 1777, capitolo V)

Nell'ottobre del 1777, mentre terminava la stesura di Virginia, Alfieri conobbe la donna che lo tenne a sé legato per tutto il resto della vita: Luisa di Stolberg-Gedern, contessa d'Albany, moglie di Carlo Edoardo Stuart, pretendente giacobita al trono di Gran Bretagna. Nello stesso periodo si dedicò alle opere di Virgilio e terminò il trattato Del Principe e delle lettere e il poema in ottave L'Etruria vendicata. La sua ennesima relazione con una donna sposata rischiava di finire come le altre se non fosse che lo Stuart non si limitò a far scoppiare uno scandalo o sfidare il poeta a duello. Il 30 novembre, l'alcolizzato Carlo Edoardo aggredisce fisicamente la moglie, tentando di ucciderla. Con l'avallo del governo granducale, la contessa d'Albany riuscì ad abbandonare il marito, divenuto ormai violento e alcolista, rifugiandosi a Roma presso il convento delle Orsoline, con l'aiuto di suo cognato, Enrico Benedetto Stuart, cardinale e duca di York.

Dopo qualche tempo Alfieri, che nel frattempo aveva donato, con il famoso atto definito da lui come "disvassallarsi" dalla monarchia assoluta dei Savoia, tutti i beni e le proprietà feudali alla sorella Giulia riservandosi un vitalizio e una parte del capitale, oltre che rinunciato alla cittadinanza del Regno (divenendo apolide), raggiunse a Roma la contessa e si recò poi a Napoli, dove terminò la stesura dell'Ottavia ed ebbe modo di iscriversi alla loggia massonica della "Vittoria".

Tornò a Roma stabilendosi a Villa Strozzi presso le Terme di Diocleziano, con la contessa d'Albany, che nel frattempo ottenne una dispensa papale, sempre grazie al cognato, che le permise di lasciare il monastero di clausura. Nei due anni successivi di soggiorno romano lo scrittore portò a compimento le tragedie Merope e Saul.

Nel 1783, Alfieri fu accolto all'Accademia dell'Arcadia col nome di Filacrio Eratrastico. Nello stesso anno terminò anche l'Abele. Tra il 1783 e il 1785 pubblicò in tre volumi la prima edizione delle sue tragedie stampate dai tipografi senesi Pazzini e Carli. Ma questo periodo idilliaco fu bruscamente interrotto dal cardinale di York, il quale, scoprendo la relazione dello scrittore con la cognata, gli intimò di abbandonare Roma.

Alfieri, con il pretesto di far conoscere le proprie tragedie ai maggiori letterati italiani, intraprese una serie di viaggi. Conobbe Ippolito Pindemonte a Venezia, Melchiorre Cesarotti a Padova, Pietro Verri e Giuseppe Parini a Milano. Ma le tragedie raccolsero per la maggior parte giudizi negativi. Solamente il poeta Ranieri de' Calzabigi si complimentò con lo scrittore che con le sue opere aveva posto il teatro italiano sullo stesso piano di quello transalpino.

Nell'aprile del 1784, la contessa d'Albany, per intercessione di Gustavo III di Svezia, ottenne la separazione legale dal marito e il permesso di lasciare Roma e si ricongiunse all'Alfieri ad agosto, nel castello di Martinsbourg a Colmar, in segreto, per salvare le apparenze e la pensione della contessa, pagata dalla corona francese ai parenti degli Stuart in esilio. A Colmar, Alfieri scrisse l'Agide, la Sofonisba e la Mirra. Quest'ultima è ritenuta, assieme al Saul, il capolavoro assoluto di Alfieri, opera anticipatrice, come i miti greci a cui si rifà, di tematiche della psicoanalisi.

Costretti ad abbandonare l'Alsazia alla fine dell'anno, per l'obbligo della contessa di risiedere negli Stati papali, Alfieri si sistemò a Pisa e la Stolberg a Bologna. La già insostenibile situazione fu aggravata dalla improvvisa morte dell'amico Gori. Sono di quel periodo alcune rime tra cui il Panegirico di Plinio e Traiano e le Note, sorte in polemica risposta verso le critiche negative alle sue tragedie.

Nel 1785 portò a termine le tragedie Bruto primo e Bruto secondo. Nel dicembre del 1786, l'Alfieri e la Stolberg (che sarebbe divenuta vedova due anni dopo) si trasferirono a Parigi acquistando due case separate; in questo periodo furono ripubblicate le sue tragedie per opera dei famosi stampatori Didot. Nel salotto della Stolberg, Alfieri conobbe molti letterati, in particolare fece la conoscenza di André Chénier (futura vittima della Rivoluzione), che ne rimase talmente colpito da dedicargli alcuni suoi scritti, e il console Filippo Mazzei, diplomatico toscano naturalizzato statunitense (collaboratore dell'allora ambasciatore Thomas Jefferson), con cui strinse un'amicizia che durò negli anni successivi. Nel febbraio del 1788, con la morte di Carlo Edoardo Stuart, Alfieri e la contessa poterono finalmente vivere liberamente la loro relazione.

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La rivoluzione francese e Napoleone

«Laonde io addolorato profondamente, sì perché vedo continuamente la sacra e sublime causa della libertà in tal modo tradita, scambiata e posta in discredito da questi semifilosofi.»
(da Vita di V. Alfieri, Epoca quarta, 1790, titolo del capitolo XIX)

Nel 1789, Alfieri e la sua compagna furono testimoni oculari dei moti rivoluzionari di Parigi. Gli avvenimenti in un primo tempo fecero comporre al poeta l'ode A Parigi sbastigliato, che poi però rinnegò: l'entusiasmo si trasformò in odio verso la rivoluzione, esplicitato nelle rime del Misogallo. Tra il 1791 e il 1792 visitò di nuovo l'Inghilterra, dove rivide Penelope Pitt, ma senza parlarle. Nel 1792 l'arresto di Luigi XVI e le stragi del 10 agosto convinsero la coppia a lasciare definitivamente la città per tornare, passando attraverso Belgio, Germania e Svizzera, in Toscana. Nel frattempo era stato emanato un ordine d'arresto per la contessa, in quanto nobile e straniera, ma non per Alfieri; anticipando la partenza da Parigi Alfieri e la compagna si salvarono dai gendarmi, venuti per eseguire il mandato, che saccheggiarono la loro abitazione.

Tra il 1792 e il 1796 Alfieri, a Firenze, si immerse totalmente nello studio dei classici greci traducendo Euripide, Sofocle, Eschilo, Aristofane. Proprio da queste ispirazioni nel 1798 nacque l'ultima tragedia alfieriana: l'Alceste seconda. Si appassiona anche a recitare le proprie tragedie personalmente, preferendo per sé il ruolo di Saul. Tra il 1799 e il 1801 le vittorie francesi sul suolo d'Italia costrinsero l'Alfieri a fuggire da Firenze per rifugiarsi in una villa presso Montughi. Il suo misogallismo - nonostante, però, dichiarasse di odiare i francesi, continuò ad avere buoni rapporti con singole persone transalpine, come il pittore François-Xavier Fabre, esule a Firenze, intimo amico della coppia Alfieri-Stolberg e loro ritrattista - gli impedì persino di accettare la nomina a membro dell'Accademia delle Scienze di Torino nel 1801, dopo che il Piemonte era entrato anch'esso in orbita napoleonica.

Un suo nipote acquisito, il generale Luigi Leonardo Colli, aderì all'esercito francese e l'Alfieri lo rimproverò in una lettera. Il poeta non si oppose apertamente e politicamente al dominio francese in Toscana, ma si ritirò completamente dalla vita pubblica affidando alle rime, principalmente al Misogallo, il suo sdegno. Durante questo periodo, nonostante facesse vita estremamente appartata, divenne il punto di riferimento di molti patrioti e letterati italiani, e le sue tragedie riscossero un enorme successo. Il giovane poeta Ugo Foscolo lo prese a modello da seguire.

Ad Alfieri Foscolo dedicò il Tieste, inviandolo al drammaturgo astigiano con la dedica. Non si incontrarono mai, a quanto afferma Foscolo nell'epistolario e nell'Ortis; pare però che Alfieri, anche se non rispose alla lettera del giovane, avesse elogiato con alcuni conoscenti lo stile della tragedia, prevedendo il grande avvenire letterario dell'allora giovane ufficiale napoleonico (nonostante l'iniziale disparità di vedute su Napoleone e sulla Rivoluzione, anche Foscolo poi converrà con Alfieri in un giudizio negativo del generale francese, chiamandolo "tiranno") e futuro primo vero poeta-vate dell'Italia risorgimentale. In particolare, Alfieri avrebbe affermato che quel giovane l'avrebbe superato in quanto a gloria letteraria.

Tra il 1801 e il 1802, Alfieri compose sei commedie: L'uno, I pochi e I troppi, tre testi sulla visione satirica dei governi dell'epoca; Tre veleni rimesta, avrai l'antidoto, sulla soluzione ai mali politici (quasi un testamento politico, in cui l'Alfieri, "il conte repubblicano", pare accettare una monarchia parlamentare in stile inglese), La finestrina, ispirata ad Aristofane e Il divorzio, in cui condanna i matrimoni nobiliari d'interesse, il cicisbeismo e tutti i cattivi costumi dell'Italia dei suoi tempi. Tra le originali iniziative di Alfieri nell'ultimo periodo, il progetto di una collana letteraria denominata "l'ordine di Omero", del quale si autonomina simbolicamente "cavaliere". Nella raccolta include ventitré poeti antichi e moderni, tra cui Molière, Racine e Voltaire, ultima testimonianza del rapporto letterario di amore-odio con la cultura francese, in particolare con il principale filosofo dei "lumi", prima ammirato e preso a modello da imitare e superare (nel Bruto primo, nel Bruto secondo e in Della tirannide), poi bersagliato nella satira L'antireligioneria, ed infine parzialmente da lui riabilitato.

Vittorio Alfieri si spense a Firenze l'8 ottobre 1803 all'età di 54 anni, probabilmente a causa di una malattia cardiovascolare o un attacco di uremia fulminante: dopo un breve periodo di altalenanti problemi di salute e attacchi di gotta, Alfieri ebbe un malore, riuscendo solo a far chiamare la contessa d'Albany, a cui aveva lasciato i suoi beni per testamento, e poco dopo, seduto sul letto, si accasciò e non riprese più conoscenza. Venne sepolto nella basilica di Santa Croce, e alle esequie assistette anche il celebre scrittore francese François-René de Chateaubriand. A sua memoria rimane lo splendido monumento funebre realizzato da Antonio Canova ed ultimato nel 1810.

Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera

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