Porre e distrarre
Tutti coloro che hanno frequentato un regolare corso di studi sanno (o dovrebbero sapere) che i verbi si raggruppano in tre categorie, chiamate, propriamente, coniugazioni: -are; -ere; -ire.
I verbi il cui modo infinito finisce in -are appartengono, quindi, alla prima coniugazione; quelli il cui infinito termina in -ere alla seconda e infine appartengono alla terza coniugazione i verbi la cui desinenza dell’infinito è -ire: amare; temere; sentire.
Tutto questo preambolo per rispondere a un lettore il cui figlio si è trovato in difficoltà nel risolvere alcuni quiz di natura linguistica per l’ammissione a un corso di specializzazione presso un ente parastatale. Questa, all’incirca – ci dice il lettore – la domanda cui dovevano rispondere i concorrenti: «A quale delle tre coniugazioni appartengono i verbi porre, indurre, tradurre e distrarre?».
Di primo acchito la domanda sembra illogica in quanto nessuno dei suddetti verbi finisce in -are, -ere e -ire. Non c’è dubbio, però, che debbono appartenere a una delle tre coniugazioni. Ma quale? Per saperlo non si può certo ricorrere al sistema della monetina come ha fatto – ci è sembrato di capire – il figliolo del nostro gentile interlocutore.
Non si può, insomma, fare affidamento sulla sorte per quanto attiene alle cose linguistiche perché la lingua – lo si voglia o no – è una scienza. Allora? Ecco venirci incontro il padre della nostra lingua: il nobile latino.
Tutti e quattro i verbi in oggetto sono, infatti, di provenienza latina; basta vedere, quindi, a quale coniugazione latina appartengono e... il gioco è fatto. Esaminiamone uno per uno.
È necessario, però, ricordare che il latino aveva (ha?) quattro coniugazioni divenute tre in italiano perché i verbi della seconda e terza coniugazione che differivano per la e della desinenza -ere – che poteva essere breve o lunga – sono stati raggruppati tutti nella seconda coniugazione. Vediamo, dunque.
Porre è il latino ponere; appartiene, quindi, alla seconda coniugazione. Indurre viene da inducere, anche questo, per tanto, si classifica tra i verbi della seconda coniugazione, come tradurre, da ducere. Distrarre, infine, da distrahere. Tutti e quattro i verbi, dunque, nonostante la diversità delle desinenze dell’infinito si classificano tra i verbi della seconda coniugazione.
Non capiamo, quindi, come un autorevole vocabolario sia potuto incorrere in un grossolano errore collocando distrarre fra i verbi irregolari della prima coniugazione. È interessante vedere, a questo proposito, i vari passaggi semantici di distrarre.
Diamo la parola al DELI: «Voce dotta, latino distrahere, tirare (trahere) di qua e di là. (...) Il significato del latino distrahere è quello rispecchiato dal linguaggio giuridico: distrarre una grossa somma a proprio beneficio. Di qui si dirama il significato più specifico di distrarre la mente da un pensiero, a cui molto più tardi fa seguito la costruzione distrarre uno dalle preoccupazioni, e quindi distrarsi nel senso di divertirsi».
Ma come si è giunti all’accezione usuale di distratto (che è il contrario di concentrato, raccolto, intento, assorto? (...) il Lerch ingegnosamente riconduce questa accezione ai mistici medievali: «distractus è, in origine, colui che gli svaghi esterni distolgono dalla concentrazione in sé stesso e in Dio: è insomma distratto da Dio (...)». Sentiamo, in proposito, anche il Pianigiani etimo.it.
Distrarre, insomma, potremmo dire che vale tirare da un’altra parte. Il cassiere di una banca, per esempio, che distrae una somma di denaro non la tira da un’altra parte, cioè a sé? E sempre a proposito di... distrazione ci piace concludere con un pensiero di Kafka: «La vita è una perpetua distrazione, che non lascia neppure prendere coscienza di ciò da cui distrae».
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