L'emancipazione...
L’emarginazione, di cui abbiamo parlato ieri, ci ha fatto venire alla mente, per assonanza, ma soprattutto per contrasto, l’emancipazione che potremmo definire il suo contrario. Prima di occuparci di questo termine sotto il profilo prettamente linguistico, ci piace riportare un pensiero di Marx – che non commentiamo, come nostro costume – lasciando ai cortesi lettori la libertà di interpretarlo come credono: «La soppressione della proprietà privata è, dunque, la completa emancipazione di tutti i sensi umani e di tutte le qualità umane».
Ma vediamo cos’è questa emancipazione, per la lingua, naturalmente. Questa volta il termine è riportato da tutti i vocabolari in quanto è di chiara provenienza... latina. Alla voce in oggetto possiamo, infatti, leggere: «L’emancipazione è, in senso figurato, il sottrarsi a uno stato di soggezione e la condizione che così si raggiunge». Il tutto, però, non è chiaro se non esaminiamo con attenzione il verbo dal quale il vocabolo proviene: emancipare.
L’emancipazione, quindi, è un deverbale, vale a dire un sostantivo generato da un verbo. A questo punto diamo, però, la parola a Ottorino Pianigiani, illustre glottologo, che sarà di gran lunga più chiaro dell’estensore di queste noterelle (si veda il collegamento in calce all’articolo).
L’emancipazione, per tanto, in senso metaforico è la liberazione da una soggezione di qualunque tipo: emancipare le donne, riconoscere loro, cioè, gli stessi diritti dell’uomo. L’emancipato, quindi, non si può considerare – come dicevamo – l’opposto, vale a dire il contrario dell’emarginato? O no? A voi, amici, giudicare.
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