Errori e... quasi errori
Ci capita sovente di leggere sulla stampa articoli — redatti da gente di cultura e grandi firme — che non rispettano le norme che regolano la nostra lingua, un tempo idioma gentil sonante e puro per dirla con l’Alfieri. Alcuni scritti sono pieni di errori madornali (che sfuggono a un primo esame); altri, invece, sono farciti di quasi errori, di parole, cioè, che in buona lingua italiana andrebbero scritte in modo diverso, vale a dire in modo conforme alla loro etimologia.
Cominciamo con il vedere alcuni errori madornali (anche se di primo acchito non sembrano tali) in cui cade la quasi totalità delle grandi firme del giornalismo. Dopo il prefisso di non si deve assolutamente raddoppiare la consonante che segue. Non si scriva, quindi, dippiù ma, correttamente, dipiù, meglio ancora di più; non perloppiù, ma perlopiù. Il raddoppiamento della p è tipicamente dialettale.
Ciò vale anche per dinanzi che molti, erroneamente, scrivono dinnanzi, probabilmente per un accostamento analogico con innanzi il cui rafforzamento sintattico (raddoppiamento della n) è solo apparente perché la doppia n risulta dalla fusione di in e dalla locuzione latina in antea già contratta in nanzi (in + in antea = in nanzi = innanzi); dinanzi deriva, invece, dalla fusione di di e di nanzi (di + in antea = in nanzi = dinanzi).
Non bisogna raddoppiare la v in tutta la coniugazione del verbo intravedere e non seguire, per tanto, l’esempio negativo dei cosi detti scrittori di vaglia che dicono e scrivono, ad esempio, noi intravvediamo. Il predetto verbo non raddoppia la v perché il prefisso intra, al contrario di infra, non richiede il rafforzamento sintattico: intravedere, ma inframmettere.
Dove dovrebbero rispettare il raddoppiamento e non l’osservano incorrendo, quindi, in un madornale errore è in senonché, la cui sola forma corretta è sennonché in quanto la congiunzione se, come vuole la legge grammaticale richiede il raddoppiamento della consonante della parola che segue: sebbene, seppure, semmai, sennò e, conseguentemente, sennonché.
E veniamo ai quasi errori. Ce ne vengono alla mente due: neofita e archiatra. Il primo tutti lo scrivono con la a finale, per l’appunto, ma è un… quasi errore (per noi è un errore senza il quasi, anche se i soliti vocabolari permissivi lo ammettono) in quanto nella grafia non rispetta la sua etimologia. Questo vocabolo, dunque, che significa convertito di recente, nuovo adepto, formato con le voci greche νέο (neo, nuovo) e φύειν (phyein, germogliare, generare) latinizzato in neophytus (germogliato da poco) è divenuto in lingua italiana neofito, con tanto di desinenza in o.
È, per tanto, un sostantivo e si comporta come tale: neofito per il maschile singolare, neofita per il femminile singolare e neofiti e neofite per i rispettivi plurali. Stesso discorso per quanto attiene ad archiatra la cui desinenza in a è tollerata. La sola forma corretta sarebbe archiatro. Anche questo, perciò, è un quasi errore. E vediamo il perché. Questo sostantivo — adoperato un tempo per indicare il primo medico di corte e rimasto in uso oggi solo per il medico del Pontefice — viene pari pari dal greco ἀρχιατρός (archiatròs), composto con ἀρχι (archi, primato, superiorità) e ἰατρός (iatròs, medico, il primo medico, dunque). Dal punto di vista prettamente etimologico, quindi, la desinenza in a (archiatra) non è giustificata. La forma scorretta, il quasi errore, si tollera per analogia con pediatra, odontoiatra, psichiatra, otoiatra e via dicendo.
Coloro che amano il bel parlare e il bello scrivere prestino attenzione, quindi, e facciano di tutto per non cadere nei… quasi errori.
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