L'avverbio e la mente
Felicemente, costantemente, opportunamente, eccetera. Quante volte nello scrivere e nel parlare adoperiamo queste parole per esprimere uno stato d’animo o il modo in cui viene svolta o svolgiamo un’azione. Forse, però, non ci siamo mai soffermati a riflettere sul perché queste parole hanno la medesima terminazione: mente. Vediamo, dunque.
Mente non è altro che il caso ablativo del latino mens che significa animo, spirito, mente, cuore e simili. I Latini, infatti, per indicare lo stato d’animo di una persona usavano un aggettivo seguito dal sostantivo mente: serena mente (con spirito sereno); adoperavano, insomma, il complemento di modo o maniera.
Poiché l’ordine delle parole era sempre lo stesso, l’aggettivo seguito dal sostantivo (mente), esse finirono con l’essere pronunciate unite e, di conseguenza, scritte unite assolvendo la funzione di avverbio (ad verbum, accanto al verbo). Il sostantivo mente, quindi, perse il suo significato originario per diventare un suffisso (sub fixus, letteralmente messo sotto, vale a dire dopo un’altra parola) atto alla formazione di qualsivoglia tipo di avverbio di modo o maniera: quella parte invariabile del discorso che – come si usa definire – serve a modificare il significato di un verbo, di un aggettivo o di un altro avverbio.
A questo proposito riportiamo alcuni esempi tratti dal capolavoro di Alessandro Manzoni: «La folla rimasta indietro cominciò a sbandarsi, a diramarsi a destra e a sinistra»; «Don Abbondio poteva ben comandarle risolutamente e pregarla cordialmente che stesse zitta…».
Le parole che abbiamo evidenziato in grassetto, modificano il senso dei verbi rimanere, diramarsi, comandare e pregare. L’avverbio può stare prima o dopo il verbo; posto prima, però, dà una maggiore efficacia espressiva: cordialmente ti saluto ha una forza espressiva diversa da ti saluto cordialmente. Qualunque aggettivo può diventare un avverbio di maniera. Prima di aggiungere il suffisso mente bisognerà volgerlo al femminile; esempio: bello, bella, bellamente. Attenzione, però, se l’aggettivo appartiene alla seconda classe, ossia ha la terminazione in e (e questa è preceduta dalla consonante l) tanto per il maschile quanto per il femminile, oppure ha la desinenza in lo o in re occorre togliere quest’ultima vocale. Esempio: terribile, terribil, terribilmente; leggero, legger, leggermente; benevolo, benevol, benevolmente. In questo caso, in grammatica, abbiamo anche la sincope, vale a dire la caduta di una lettera nel corpo di una parola: terribil(e)mente.
Vi sono, tuttavia, altri tipi di avverbio di modo o maniera, vediamoli schematicamente:
a) alcuni aggettivi maschili (che restano invariati): forte; chiaro; piano, eccetera (parlare piano);
b) alcune forme proprie derivate dal latino: bene, male, peggio, meglio, così, come, altrimenti, eccetera (non rivolgerti così a tuo padre).
Ci sono, inoltre, alcune locuzioni avverbiali di modo, vediamo le più comuni: a cavallo, a piedi, di corsa, alla svelta, di sbieco, in fretta, alla carlona, a bizzeffe, terra terra, pian piano.
Alcuni avverbi possono terminare in oni (o one). Sono quelli derivati da forme verbali o da sostantivi con l’aggiunta del suffisso oni (o one): tastoni (dal verbo tastare); ginocchioni (da ginocchio); cavalcioni (da cavalcare); penzoloni (da penzolare) e via dicendo.
È tremendamente errato (anche se alcuni sacri testi non concordano) farli precedere dalla vocale a. Non si dirà, per tanto, camminava a carponi ma, correttamente, camminava carponi. Sappiamo benissimo che alcuni vocabolari ammettono l’uso della preposizione a (stava a cavalcioni sul davanzale della finestra); voi, però, se amate parlare e scrivere correttamente seguite pedissequamente i consigli dei linguisti che condannano tale uso. Si dice, per caso, a lentamente?
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