Parlare a orecchio
Un errore non è un errore: è l’applicazione di una regola giusta al momento sbagliato. Il passato prossimo si fa col verbo avere e un participio passato: ho pensato. Ma se dico ho andato sbaglio, perché quel verbo il passato prossimo lo fa con l’ausiliare essere.
Nello stesso modo, è una regola giusta quella di completare il messaggio con gli eventuali elementi mancati. Se qualcuno dice «Domani devo andare a Milano» e mentre lo dice c’è un botto in coincidenza con la sillaba la di Milano, chiunque capisce lo stesso la frase.
E lo stesso avviene nella lettura. Noi non leggiamo tutte le lettere dell’alfabeto di uno scritto, ma il nostro occhio va saltando, intuisce anche ciò che non legge, ed è questa la ragione per cui non vediamo gli errori di battitura.
Ma questo meccanismo ha i suoi inconvenienti e può condurre ad errori. A parte quelli di battitura, alcuni rivelano insufficienti letture e insufficiente cultura.
Quando — si sente anche nei media — qualcuno dice che tizio, interrogato, si è schernito, è chiaro che confonde, con gli occhi e con la mente, schernire (fare del sarcasmo su) e schermirsi, da schermo, non da scherno, e dunque più o meno proteggersi, difendersi, sottrarsi. Da cui scherma.
Costoro parlano la lingua come coloro che suonano a orecchio, senza mai avere visto un rigo musicale. E senza sapere quello che dicono.
Gianni Pardo
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