Non avere il becco di un quattrino e fare una grigia
Vi sarà capitato senz'altro — in alcune circostanze — di non avere il becco di un quattrino e fare, quindi, una figuraccia, la così detta grigia. Tutti conosciamo il significato delle due espressioni, pochi, forse, conoscono le origini dei due modi di dire. Vediamole assieme.
Cominciamo dalla seconda locuzione, fare una grigia, fare, cioè, una figuraccia, una figura meschina. Quest'espressione, dunque, si rifà direttamente al colore grigio nel significato figurato di scialbo, meschino: che grigia! (sottintendendo figura).
Varie sono, invece, le ipotesi circa l'origine del becco di un quattrino. Riportiamo quella — a nostro avviso più credibile — che fa derivare il modo di dire dal fatto che un tempo svariate monete recavano su una delle due facce l'immagine di un volatile, per esempio quella dell'aquila imperiale.
La metafora
Vogliamo parlare di una figura retorica chiamata metafora, ritenuta la regina (delle figure retoriche) in quanto è il tropo più importante e quello che ha maggiormente interessato (e interessa tuttora) gli studiosi di lingua. Le definizioni della metafora sono state molte nella storia della retorica (arte del parlar bene), noi riportiamo — e facciamo nostra — quella di Aldo Gabrielli, uno dei maggiori linguisti del XX secolo:
«Dal greco μεταφορά metaphorà, trasferimento, vocabolo composto di μετἀ metà, altrove, e φέρω phèro, porto: è il traslato per eccellenza, per il quale si trasferisce a un vocabolo il significato di un altro vocabolo. Per fare un esempio, se noi diciamo “quell'uomo è una lumaca” abbiamo fatto una metafora, in quanto abbiamo addirittura identificato l'uomo con l'animale. La ragione artistica di questo traslato sta nella sostituzione di un'immagine concreta, più viva e colorita (lumaca) all'idea astratta (lentezza)».
La metafora, insomma, se adoperata con accortezza, dà un tocco di classe stilistica ai nostri scritti perché consiste nel trasferimento di un'espressione che indica una qualità, una cosa, una circostanza o quant'altro, dal suo ambito proprio a un ambito diverso dal primo che, però, ha qualcosa di essenziale in comune con questo.
Attenzione, però, a non confondere la metafora con la similitudine (la prima trasferisce il significato di un vocabolo a un altro, la seconda lo paragona).
Non a caso abbiamo scritto, all'inizio, che la metafora è la regina dell'arte del parlare e dello scrivere (retorica), una ragione c'è: è la figura retorica che ha dato il maggior contributo alla formazione del lessico. Una riprova? La testa, nell'accezione a tutti nota di parte superiore del corpo umano e di quello degli animali, proviene da un vocabolo latino che significava vaso di terracotta e scherzosamente era adoperato nel mondo dei nostri antenati romani pressoché nello stesso significato che oggi noi diamo al termine zucca per indicare, metaforicamente appunto, la testa.
C'è da dire, e concludiamo queste noterelle, che molto spesso la metafora nasce anche per necessità... linguistica (lessicale); ma non bisogna abusarne.
La lingua della stampa
Da un quotidiano in rete: «L'uomo fu crivellato di colpi nel 2013 dopo di una guerra tra 'ndrine per il controllo della droga nella Capitale».
Ci eravamo presi la briga di segnalare la svista (quel di di troppo) alla redazione, ma inutilmente. Evidentemente il corpo redazionale è convinto della correttezza di quel di. La nostra segnalazione — crediamo — sarà stata ritenuta errata...
Vediamo, allora, l'uso corretto di dopo dando la parola al linguista Vincenzo Ceppellini:
«Avverbio di tempo. Indica il tempo posteriore (Ci vedremo dopo; Dopo discuteremo). Talora ha valore di congiunzione (Dopo che sarai arrivato) (...). Usato come preposizione si costruisce direttamente, o con la preposizione 'di' davanti ai pronomi personali: dopo la sfilata; Dopo di te; Dopo tutti gli altri (...)».
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