Discorso e discusso

Si è portati a ritenere che discusso sia il participio passato del verbo discorrere: abbiamo discusso su tutto. No, amici, si presti attenzione. Il participio passato di discorrere è discorso: abbiamo discorso tutto il tempo trascorso in treno. Vediamo la differenza, dunque, tra discusso e discorso.
Il primo è il participio passato di discutere per il cui significato ricorriamo al vocabolario Gabrielli in rete:

«1 Trattare, esaminare in maniera particolareggiata una questione, un argomento, tra due o più persone che manifestano ciascuna il proprio parere, allo scopo di accertare la verità, di decidere e sim.: d. una causa, un disegno di legge; d. il pro e il contro di una proposta; d. di politica; d. su una faccenda importante; d. intorno a una questione.
2 Criticare con obiezioni, contrastare: gli ordini non si discutono; c'è poco da d.
3 estens. Bisticciare, altercare, questionare: smettetela di d.».

E veniamo al secondo, participio passato di discorrere. Anche in questo caso ricorriamo, per il significato, al Gabrielli in rete:

«v. intr. (aus. Avere).
1 Parlare piuttosto diffusamente con qualcuno di argomenti vari: passiamo le giornate lavorando e discorrendo; d. d'arte, di politica. ‖ Discorrere del più e del meno, conversare tranquillamente, senza un argomento preciso. ‖ E via discorrendo, eccetera. ‖ Un gran discorrere, molte chiacchiere.
2 lett. Correre qua e là: vedea nel pian d. / la caccia affaccendata Manzoni.
3 dial. Avere una relazione sentimentale.
B v. tr.
1 raro Attraversare, percorrere
2 raro, fig. Scorrere con la mente».

Possiamo concludere, quindi, affermando che se si discorre non si litiga, se si discute si può anche litigare: Giovanni e Rocco, seduti su una panchina, discorrevano di teatro; Rodolfo e Bernardo discutevano su chi dovesse restare in casa ad accudire alla madre inferma. I relativi sostantivi corrispondenti sono discussione e discorsa, quest’ultimo non comune e con una connotazione spregiativa.

13-07-2018 — Autore: Fausto Raso — permalink


Sull'uso di alcuni prefissi

Siamo certi di non tediare i nostri gentili amici se spendiamo due parole sull’uso corretto di alcuni prefissi. Il prefisso, dunque, viene dal latino praefixus (messo prima), participio passato sostantivato del verbo praefigere (prefiggere). I grammatici chiamano prefisso quelle parole, solitamente avverbi o preposizioni, che si mettono prima, appunto, di un’altra parola per modificare il significato della parola stessa. I prefissi che più frequentemente ci capita di usare sono: dis, neo, maxi, mini. Vediamo, nell’ordine, il loro corretto impiego.
C’è da dire, innanzi tutto, che contrariamente a quanto ci propina certa stampa, i prefissi debbono essere uniti alla parola che segue; non possono essere scritti staccati o, peggio, uniti alla parola con un trattino.
Dis (o de): questo prefisso viene usato, generalmente, per indicare un’idea di allontanamento, di privazione (de privativo: disattivare, rendere inattivo; disabituato, non più abituato);
Neo: anche se alcuni autorevoli testi di grammatica lo classificano tra i prefissi non è propriamente tale e se ne fa un abuso, meglio lasciarlo alle parole della storia (neocapitalismo, neoghibellino);
Maxi e mini sono dei prefissi che servono per indicare, rispettivamente, la grandezza e la piccolezza, oltre il normale, di una determinata cosa. Anche di questi oggi se ne fa un uso indiscriminato; meglio relegarli al campo della moda. Ci sono tantissime altre espressioni che rendono l’idea della grandezza e della piccolezza.
Abbiamo volutamente tralasciato il prefisso con perché ne abbiamo parlato svariate volte a proposito della contestatissima (ma correttissima) parola comproduzione.
Per concludere possiamo dire che chi nello scrivere non rispetta le norme che regolano l’uso dei prefissi prende una grandissima cantonata grammaticale. Quest’espressione trae origine — probabilmente — dai cantoni (angoli) delle case cui cozzavano i carri quando transitavano per le strade strette e contorte dei nostri pittoreschi paesini.

12-07-2018 — Autore: Fausto Raso — permalink


Punto, due punti, punto e virgola

Punto, due punti, punto e virgola
Vi sono persone, anche quelle così dette acculturate, che non riescono a comprendere l’importanza della punteggiatura in uno scritto: sia esso una lettera di saluti a un amico sia esso una domanda di rimborso indirizzata all’ufficio delle Imposte.
La mancanza di punteggiatura o, peggio, l’errata collocazione dei segni d’interpunzione dà adito, il più delle volte, a un’interpretazione del nostro scritto completamente diversa dalle nostre intenzioni.
Ricordiamo, a questo proposito, la storiella — che probabilmente tutti conoscono — di frate Martino. Il religioso aveva ricevuto l’incarico, dai superiori, di scrivere sul portale della chiesa la seguente frase, in latino: Questa porta resti sempre aperta. A nessuna persona onesta sia mai chiusa in faccia.
Il poverino, però, sbagliò la collocazione del punto e l’iscrizione risultò così: Questa porta non resti mai aperta. Resti chiusa in faccia alle persone oneste. Lo “scherzetto” del punto gli costò la carriera: non divenne abate. Da questo episodio nacque il detto E per un punto Martin perse la cappa (cioè il mantello di abate).
Vediamo, quindi, sia pure per sommi capi, l’uso corretto della punteggiatura (anche per non correre il rischio di vedere respinta la nostra domanda di rimborso, a causa dell’errata punteggiatura, da uno zelante impiegato delle Imposte).

Cominciamo dal segno d’interpunzione più semplice e più comunemente adoperato: la virgola. Questo segno grafico serve per indicare tutte le pause più brevi del nostro discorso e anche per separare tutti i termini in una elencazione. È grave errore metterla tra il soggetto e il verbo e tra il verbo e i complementi.
Il punto (detto anche punto fermo) si usa per indicare una pausa più lunga della virgola e si mette dopo un frase o un periodo con senso compiuto.
Il punto e virgola indica una pausa che è una via di mezzo tra la virgola e il punto fermo e segna il distacco tra frasi o periodi che hanno una stretta relazione fra loro. È un segno che non tutti sanno adoperare a dovere; se ben collocato, invece, dà al nostro discorso una particolare efficacia espressiva.
I due punti indicano una pausa nel corpo del periodo; pausa che si fa prima di riportare risposte e parole altrui o prima di una elencazione di cose o di concetti; o quando il concetto che segue è una spiegazione o un rafforzamento di quello precedente. Si possono adoperare una volta sola per ogni frase.
Per quanto attiene al punto interrogativo e a quello esclamativo, non crediamo presentino particolari difficoltà d’impiego.

11-07-2018 — Autore: Fausto Raso — permalink