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Giosuè Carducci
(✶1835   †1907)

Un'epidemia di colera afflisse alcune zone della Toscana nel 1854. Carducci si sentiva molto legato alla sua terra e non esitò a mettere da parte i libri per assistere giorno e notte a Piancastagnaio, assieme al padre e a Dante, le persone che venivano contagiate dal morbo.

Il 2 luglio 1856 conseguì la laurea in filosofia e filologia, con una tesi intitolata Della poesia cavalleresca o trovadorica, inno, vi si legge, al «risorgimento intellettuale (il risorgimento della letteratura e dell'arte in Italia sul finire del medio evo)», lode a Cielo d'Alcamo, ai poeti dello stilnovo, a san Francesco d'Assisi e naturalmente a Dante Alighieri, nell'esaltazione dei modelli classici latini imprescindibile modello anche per la letteratura presente.

Nel periodo universitario Carducci era solito recarsi nei giorni liberi a Firenze, per trascorrere del tempo in compagnia degli amici, tra cui spiccavano Giuseppe Torquato Gargani (1834-1862), Giuseppe Chiarini (1833-1908), Ottaviano Targioni Tozzetti (1833-1899), Enrico Nencioni (1837-1896) ed altri. Assieme a Nencioni e Chiarini cominciò a stampare, a partire dal 1855, dei versi nell'Almanacco delle dame edito dal cartolaio Chiari, e nel 1856 Giosuè fece uscire nell'Appendice alle Letture di Famiglia (diretta e fondata ancora dal Thouar) una traduzione e un commento dei versi 43-71 della prima Georgica virgiliana e dell'Epodo VII di Orazio.

Con gli amici fiorentini diede anche vita al gruppo antiromantico - e di strenua difesa del classicismo - degli Amici pedanti, assieme ai quali attaccò la corrente "odiernissima" dominante in città, appoggiando il Gargani nella stesura della sua Diceria e curando una Giunta alla derrata in cui replicava alle sprezzanti critiche piovute addosso agli Amici dai periodici locali, primo fra tutti il fanfaniano settimanale Il Passatempo.

Il debutto nell'insegnamento e l'edizione delle Rime

Carducci aveva la vocazione per l'insegnamento pubblico. Durante le vacanze del 1853 a Celle, per esempio, prendeva da parte i ragazzi e parlava loro di letteratura. Inoltre, si è già visto il suo ruolo trainante con i colleghi e gli amici a Firenze prima e a Pisa poi. Gargani e Nencioni erano precettori privati, e in un primo momento Pietro Thouar propose anche a Giosuè di intraprendere questa via. La risposta fu però chiara: egli voleva impiegarsi nell'insegnamento pubblico.

Nel 1856, dopo aver passato l'estate nella ridente Santa Maria a Monte, piccolo borgo nell'odierna provincia di Pisa cantato nel sonetto O cara al pensier mio terra gentile, fu ammesso, per interessamento del direttore della scuola, Giuseppe Pecchioli, al Ginnasio di San Miniato al Tedesco. Lo accompagnarono Ferdinando Cristiani e Pietro Luperini, due normalisti cui furono assegnati rispettivamente l'insegnamento della grammatica e delle umanità. Il Nostro ebbe la cattedra di retorica per la quarta e quinta classe. I tre abitavano a pigione subito fuori Porta Pisana, in una casetta nota nel vicinato come «casa de' maestri», e da loro definita Torre Bianca.

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Dalla squallida scuola, «grand'edificio monacale», si poteva ammirare il paesaggio del Valdarno e Carducci faceva studiare, tradurre e commentare ai ragazzi soprattutto Virgilio, Tacito, Orazio e Dante, buttando «fuor di finestra gli Inni Sacri del Manzoni». L'entusiasmo iniziale - «Insegno greco: evviva: faccio spiegare Lucrezio ai miei ragazzi: evviva me», scriveva a Chiarini - durò tuttavia poco, e presto il grigiore di un borgo chiuso e gretto doveva prendere il sopravvento.

Nella Torre Bianca si mangiava e beveva, e gli schiamazzi indispettivano la gente del luogo. Sebbene Carducci abbia sentenziato che queste, assieme a «giocare, amare, dir male del prossimo e del governo» fossero le occupazioni più degne dell'homo sapiens, era quello un costume che non gli si confaceva e che tradiva l'insoddisfazione latente. Non studiava né scriveva più, e persino la letteratura e la gloria gli parevano vane. «Perché perdere il mio tempo e la mia salute a far commenti e poesie?» scriveva ai fiorentini, «No, non faccio più nulla e non farò più nulla: e faccio bene».

Gli fu intanto pretestuosamente affibbiata l'etichetta di «misocristismo», e qualcuno sparse la voce che il Venerdì Santo del 1857 fosse sceso in paese e in una taverna avesse chiesto all'oste: «Portami una costola di quel p... di Gesù Cristo». «È vero» ammetterà, «che io in quell'anno andavo pensando un inno a Gesù con a motto un verso e mezzo di Dante, Io non so chi tu sie né per che modo / venuto se' quaggiù», ma è altrettanto vero che quel giorno si trovava a Firenze e in quei mesi aveva salutato Jacopone da Todi come Pindaro cristiano, componendo pure una laude al Corpo del Signore. Ne nacque una sorta di processo che il buon senso fece però presto naufragare.

Tuttavia i debiti contratti presso Afrodisio, come veniva chiamato colui che li ospitava, e presso il proprietario del Caffè Micheletti, cominciarono ad assumere proporzioni preoccupanti. Fu così che Cristiani ebbe l'idea di far pubblicare le poesie di Carducci. Questi, offeso, rifiutò di prostituire i propri versi per un pubblico che non li avrebbe intesi,

«Raccogliere ed esporre io le mie poesie in un libretto a prezzo come in un bordello, e abbandonarle ai contatti del pubblico che le mantrugiasse e stazzonasse come ragazze a cinque o a tre paoli, ohimè! Le poesie, massime allora, io le faceva proprio per me: per me era de' rarissimi piaceri della gioventù gittare a pezzi e brani in furia il mio pensiero o il sentimento nella materia della lingua e nei canali del verso»

ma infine, siccome l'editore Ristori «offeriva un'edizione economica e trattamento da amico», il poeta fu costretto a cedere.

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A partire dal mese di maggio lavorò alla correzione dei testi che sarebbero dovuti comparire nel volumetto. Spaziando dalla patriottica ode Agli italiani ai Saggi di un Canto alle Muse, per giungere all'ode A Febo Apolline, ripresa e completamento di un componimento adolescenziale, fino ai sonetti e alle ballate, dopo un intenso labor limae, il libro vide la luce il 23 luglio 1857 per i tipi di Ristori, composto da 25 sonetti, 12 Canti e i Saggi. L'ode oraziana - e in minor misura quella alcaica - la fa da protagonista, in un contesto chiaramente improntato alla ripresa di modelli classici, e non mancano laudi, come quella per la processione del Corpus Domini, o componimenti impregnati da spirito religioso.

Certo, però, i debiti non si estinsero, al contrario aumentarono, tanto che alla fine furono i genitori dei ragazzi a pagarli, mentre «le Rime rimasero esposte ai compatimenti di Francesco Silvio Orlandini, ai disprezzi di Paolo Emiliano Giudici, agl'insulti di Pietro Fanfani».

Il volume non passò certo inosservato né fu soltanto vituperato. La guerra che Gargani e gli Amici avevano scatenato con la Diceria si rinfocolò all'apparizione delle Rime, con Fanfani in prima linea. Questi pubblicò molti articoli denigratori ne La Lanterna di Diogene, scandalizzandosi del fatto che un certo E.M. avesse avuto l'ardire, ne La Lente, di definire Carducci miglior poeta italiano dopo Niccolini e Mamiani.

E.M. altri non era che l'avvocato Elpidio Micciarelli, un amico del Targioni che nel gennaio 1858 fondò il settimanale Momo, mettendolo a disposizione degli Amici. Il Momo pubblicò alcuni sonetti satirici del Carducci, uno diretto contro Fanfani e uno contro Giuseppe Polverini, editore e proprietario de Il Passatempo. La polemica continuò per mesi, a colpi di caricature e sonetti caudati, coinvolgendo anche il Guerrazzi che, in risposta alla richiesta di un parere sulle Rime inviatagli da Silvio Giannini (un amico di Carducci), riconosceva il grande talento del poeta rimproverandogli però il disprezzo per le letterature straniere e il fatto di copiare gli antichi, perché egli non viveva al tempo di Orazio o Pindaro, e doveva sentire e pensare da sé.

Alla fine dell'anno scolastico, nell'estate 1857, prese in affitto alcune stanze a Firenze in via Mazzetta di fronte alla famiglia Menicucci, e decise di rinunciare al posto samminiatese. Fu un periodo di frequenti riunioni degli Amici pedanti. Insieme parlavano di letteratura, leggevano e improvvisavano componimenti. Talvolta i raduni si svolgevano in casa di Francesco Menicucci - più spesso dal Chiarini -, uomo di grande bontà d'animo che con entusiasmo aveva preso parte ai moti del 1848, e amava sentire parlare di letteratura e storia, anche se le sue conoscenze in materia erano piuttosto confuse, e una sera in cui si era deciso di leggere Orazio egli infaustamente chiese: «Sono le poesie di Orazio Coclite?». Menicucci venerava il Carducci, e si rallegrava del fidanzamento con Elvira, ormai ufficiale.

Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera

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