La lingua indeuropea

Vi sarà capitato, senza alcun dubbio, nel consultare un vocabolario per cercare il significato di una parola sconosciuta di leggere, in parentesi, di origine indeuropea, come, per esempio, in frate. Questa parola viene sì dal latino frater (fratello), il cui significato è noto a tutti, però, a sua volta, derivato da una lingua prelatina chiamata, appunto, lingua indeuropea.
Saprete certamente che l'italiano, come le altre lingue romanze, è una lingua neolatina, vale a dire una lingua derivata da un nuovo latino. Saprete anche che il latino classico — nel corso dei secoli — si è imbastardito perché si è scontrato con le parlate locali del vastissimo impero romano, subendone le influenze e la contaminazione, perché ha assorbito i vari dialetti.
Così, a poco a poco, il latino è mutato dando origine ad altre lingue che hanno conservato un gran numero di vocaboli latini nella loro radice, ma subendo, però, nelle desinenze e nei costrutti sintattico-grammaticali, variazioni tali da renderle diverse dall'idioma originario.
Sono nate, in questo modo, le lingue neolatine (italiano, francese, spagnolo, rumeno, portoghese, ladino) denominate lingue volgari. Questo aggettivo — chiariamolo subito — non ha l'accezione dispregiativa e peggiorativa (come si intende nel linguaggio corrente), ma sta a indicare la lingua parlata dal popolo (volgo) illetterato. L'italiano e lo spagnolo, per esempio, sono lingue volgari in confronto al latino che era parlato non dal volgo (popolo) ma da persone acculturate.
Gli aggettivi italiano, volgare e neolatino nella terminologia dei glottologi sono, per tanto, fratelli gemelli, nel senso che uno è sinonimo dell'altro. I linguisti (o glottologi), dunque, studiando queste lingue volgari hanno notato una certa affinità non solo tra vocaboli delle lingue così dette sorelle (italiano, francese ecc.), ma anche fra parole di idiomi appartenenti a famiglie diverse: germaniche, slave, greche, sanscrite (una lingua antichissima dell'India), giungendo alla conclusione che il latino, il greco, le lingue germaniche (tedesco e inglese), lo slavo e il sanscrito debbono risalire a un unico ceppo: una lingua parlata, con inflessioni e variazioni indigene, alcuni millenni prima della nascita di Cristo, in un'area dell'universo che si estendeva dall'Europa occidentale all'India abitata da una medesima razza, gli ariani. Questo idioma, del tutto scomparso, venne chiamato, appunto, indeuropeo.
Queste affinità sono state riscontrate, particolarmente, nei vocaboli che attengono alla vita primitiva e alle sue istituzioni più antiche, come la religione, l'agricoltura e la famiglia. Una riprova? Proviamo a confrontare il latino mater con l'inglese antico modhir, con il greco mèter, con il sanscrito mata, con l'antico tedesco muoter e con lo slavo mati: le affinità balzano evidenti agli occhi di chicchessia.
Va da sé che nel corso dei secoli, anzi dei millenni, contraddistinti da migrazioni, fusioni di popoli, scomparsa di nazioni, gli idiomi (forse sarebbe meglio dire dialetti) del ceppo-madre si sono sempre più diversificati, mettendo in evidenza le differenze e riducendo, nel contempo, le affinità.
Il nostro pane, per esempio, diventa il francese pain, l'inglese bread, il tedesco brot. Ancora. L'italiano freddo diviene il francese froid, l'inglese cold, il tedesco kalt.
C'è da dire, per la verità, che la presa di coscienza dell'affinità e dell'originaria unità delle così dette lingue indeuropee, già intravista da studiosi e grammatici, divenne certa agli inizi del secolo XIX grazie a Franz Bopp (1), che diede alle stampe un'interessantissima grammatica comparata delle lingue indeuropee fino ad allora conosciute (iranico, greco, latino, sanscrito, lituano, gotico e tedesco) e ad August Schleicher (2), che ne interpretò i variegati idiomi indeuropei come una naturale differenziazione e articolazione, secondo norme fisse, di una lingua archetipa e unitaria: l'indeuropeo comune.
Perché prima abbiamo scritto che sarebbe meglio parlare di dialetto? La risposta è semplice. La lingua che noi tutti parliamo oggi, cioè l'italiano, è il dialetto fiorentino affermatosi come lingua nazionale grazie a tre grandi scrittori: Dante, Petrarca, Boccaccio. Va anche detto, però, che la stabilità di un dialetto è sempre relativa: in oltre nove secoli di vita il volgare ha subìto numerosi cambiamenti (e sintattici e morfologici) di cui ci rendiamo conto leggendo le opere degli scrittori antichi e recenti.
(1) Si vedaFranz Bopp.
(2) Si veda August Schleicher.

29-04-2019 — Autore: Fausto Raso