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Giacomo Leopardi
(✶1798 †1837)
A Firenze dal 1830 al 1833
«Perì l'inganno estremo,
ch'eterno io mi credei»
(A se stesso, vv.2-3)
Intanto, nell'aprile del 1830, il Colletta, al quale il poeta scriveva della sua vita infelice, gli offrì, grazie ad una sottoscrizione degli "amici di Toscana", l'opportunità di tornare a Firenze, dove il 27 dicembre 1831 fu eletto socio dell'Accademia della Crusca. Nello stesso 1831 a Firenze curò un'edizione dei "Canti", partecipò ai convegni dei liberali fiorentini e strinse amicizia col giovane esule napoletano Antonio Ranieri. Nel 1831, grazie alla fama di personalità liberale, fu eletto deputato dell'assemblea del governo provvisorio di Bologna (sorta dai moti del 1831), su designazione del Pubblico Consiglio di Recanati, ma non fa in tempo ad accettare la nomina (peraltro mai richiesta) che gli austriaci restaurano il governo pontificio.
Risale a questo periodo la forte passione amorosa per Fanny Targioni Tozzetti, conclusasi in una delusione, che gli ispirò il cosiddetto "ciclo di Aspasia", una raccolta di poesie scritte tra il 1831 e il 1835 che contiene: Il pensiero dominante, Amore e morte, A se stesso, Consalvo e Aspasia. In questa raccolta si manifestò il Leopardi più disilluso e disperato, orfano anche di quella tristezza nostalgica degli Idilli, nella perdita dell'ultima illusione che gli era rimasta, quella dell'amore (l'inganno estremo).
In questo periodo diviene amico anche della contessa Carlotta Lenzoni de' Medici, affascinata dalla grandezza intellettuale del poeta e conosciuta nel 1827, ma poi se ne allontanò. Secondo un'opinione minoritaria, la donna descritta negativamente come "Aspasia" non era la Targioni Tozzetti, ma proprio la Lenzoni.
Nell'autunno del 1831 si recò a Roma con Ranieri per ritornare a Firenze nel 1832 e nel corso di questo anno scrisse i due ultimi dialoghi delle "Operette", Il Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico.
A Napoli dal 1833 al 1837
Quando Ranieri tornò a Napoli, tra i due iniziò una fitta corrispondenza che ha fatto a taluni ritenere che tra Leopardi e Ranieri vi fosse un rapporto amoroso. In una di queste lettere il poeta scrive a Ranieri:«Ranieri mio, tu non mi abbandonerai però mai, né ti raffredderai nell'amarmi. Io non voglio che tu ti sacrifichi per me, anzi desidero ardentemente che tu provvegga prima d'ogni cosa al tuo benessere; ma qualunque partito tu pigli, tu disporrai le cose in modo che noi viviamo l'uno per l'altro, o almeno io per te, sola ed ultima mia speranza. Addio, anima mia. Ti stringo al mio cuore, che in ogni evento possibile e non possibile, sarà eternamente tuo.»
Nel settembre del 1833 Leopardi, dopo aver ottenuto un modesto assegno dalla famiglia, partì per Napoli con Ranieri sperando che il clima mite di quella città potesse giovare alla sua salute. Sugli anni a Napoli, Antonio Ranieri dichiarò:
«Quivi Leopardi, mentre che io, lasciatone il mio antico letto, dormiva in una camera non mia (cosa che, nelle consuetudini del paese, massime in quei tempi, toccava quasi lo scandalo), per dormire accanto a lui, ebbe, una notte, la strana allucinazione, che la signora di casa avesse fatto disegno sopra una sua cassetta, nella quale egli non riponeva mai altro che non nettissimi arnesi da ravviare i capelli, e le cesoie [...]»
Pare infatti che la padrona di casa volesse cacciarli, per timore che Leopardi fosse portatore di tubercolosi polmonare infettiva e lui stesso sosteneva, invece, che la donna volesse rubargli oggetti di sua proprietà, mentre Ranieri credeva che soffrisse di paranoie, e non ci faceva caso.
Nell'aprile 1834 Leopardi ricevette visita da August von Platen, che nel suo diario scrisse:
« Leopardi ist klein und bucklicht, sein Gesicht bleich und leidend [...] er den Tag zur Nacht macht und umgekehrt [...] führt er allerdings ein trauriges Leben. Bei näherer Bekanntschaft verschwindet jedoch alles [...] die Feinheit seiner klassischen Bildung und das Gemütliche seines Wesens nehmen für ihn ein.»
«Leopardi è piccolo e gobbo, il viso ha pallido e sofferente [...] fa del giorno notte e viceversa [...] conduce una delle più miserevoli vite che si possano immaginare. Tuttavia, conoscendolo più da vicino [...] la finezza della sua educazione classica e la cordialità del suo fare dispongon l'animo in suo favore.»
Intanto le Operette morali subirono una nuova censura da parte delle autorità borboniche, a cui seguirà la messa all'Indice dei libri proibiti dopo la censura pontificia, a causa delle idee materialiste esposte in alcuni "dialoghi". Leopardi così ne parlava in una lettera a Luigi De Sinner: «La mia filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali e qui e in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto». Durante gli anni trascorsi a Napoli si dedicò alla stesura dei Pensieri che raccolse probabilmente tra il 1831 e il 1835 riprendendo molti appunti già scritti nello Zibaldone, e riprese i Paralipomeni della Batracomiomachia che, iniziati nel 1831, aveva interrotto. A quest'ultima opera lavorò, assistito dal Ranieri, fino agli ultimi giorni di vita. Di quest'opera incompiuta, in ottave, ampiamente influenzata sia dallo pseudo Omero della Batracomiomachia, (che già Leopardi aveva tradotta in gioventù, e di cui continua la trama) che dal poema Gli animali parlanti di Giovanni Battista Casti, rimane autografo il solo primo canto. Ranieri affermò sempre che gli altri, di sua mano, furono scritti sotto dettatura del Leopardi. Le ultime ottave sarebbero state dettate da Leopardi morente poco dopo aver terminato l'ultima poesia, Il tramonto della luna. Qualche dubbio può nascere, se si pensa che Ranieri investì soldi dopo la morte del poeta per farli pubblicare come autentici, con poco successo finanziario. Nel 1836, quando a Napoli scoppiò l'epidemia di colera, Leopardi si recò con Ranieri e la sorella di questi, Paolina, nella Villa Ferrigni a Torre del Greco, dove rimase dall'estate di quell'anno al febbraio del 1837 e dove scrisse La ginestra o il fiore del deserto. Paolina Ranieri assisterà, personalmente e con profondo affetto, Leopardi nei suoi ultimi anni, all'aggravamento delle sue condizioni fisiche. Paolina (1817-1878) fu «l'unica donna che lo amò, sebbene si trattasse di un amore fraterno».
A Napoli Leopardi lavora incessantemente, nonostante la salute in peggioramento, componendo varie liriche e satire; non segue le raccomandazioni dei medici, e conduce una vita abbastanza sregolata per una persona dalla salute fragile come la sua: dorme di giorno, si alza al pomeriggio e sta sveglio la notte, mangia molti dolci (particolarmente sorbetti e gelati), talvolta frequenta la mensa pubblica (anche durante il periodo del colera) e beve moltissimi caffè.
La morte
In questo luogo egli compose gli ultimi Canti La ginestra o il fiore del deserto (il suo testamento poetico nel quale si coglie l'invocazione ad una fraterna solidarietà contro l'oppressione della natura) e Il tramonto della luna (compiuto solo poche ore prima di morire). Progettava anche di tornare a Recanati, per vedere il padre o partire per la Francia. Seguendo il parere di alcuni medici fiorentini, che, al contrario di altri, lo avevano convinto che la sua malattia fosse più psicologica che fisica, cominciò ad ignorare le prescrizioni, pensando che non potesse comunque decidere il suo destino. In una lettera al padre, però, avverte la morte come imminente, e spera che avvenga, non sopportando più i suoi mali. Nel febbraio del 1837 ritornò a Napoli con Ranieri e la sorella, ma le sue condizioni si aggravarono verso maggio, anche se non in modo tale da far sospettare ai medici o a Ranieri il reale stato di salute. Il 14 giugno di quell'anno, Leopardi morì improvvisamente, dopo essersi sentito male al termine di un pranzo (che abitualmente consumava all'inconsueto orario delle 17); quel giorno, aveva mangiato, al mattino, circa un chilo e mezzo di confetti cannellini comprati da Paolina Ranieri in occasione dell'onomastico di Antonio e bevuto una cioccolata, poi una minestra calda e una limonata (o granita fredda) verso sera.
Colpito dal malore poco prima di partire per Villa Ferrigni, come avevano programmato, nonostante l'intervento del medico l'asma di Leopardi peggiorò e poche ore dopo morì. Secondo la testimonianza di Antonio Ranieri, Leopardi si spense alle ore 21 fra le sue braccia. Le sue ultime parole furono "Addio, Totonno, non veggo più luce". Tre giorni dopo il decesso, Antonio Ranieri pubblicò un necrologio sul giornale "Il progresso".
La morte del poeta è stata analizzata da studiosi di medicina già a partire dall'inizio del XX secolo. Molte sono state le ipotesi, dalla più accreditata, pericardite acuta con conseguente scompenso, a quelle più fantasiose, cibo avariato, congestione, coma diabetico o indigestione, fino al colera stesso. Nessuna delle tesi alternative, tuttavia, è riuscita a smentire il referto ufficiale, diffuso dall'amico Antonio Ranieri: idropisia polmonare il che è comunque verosimile, dati i suoi problemi respiratori, dovuti alla deformazione della colonna vertebrale; è anche possibile che l'edema fosse una delle conseguenze dei problemi cronici di cui soffriva, e che la causa principale fosse appunto un problema cardiaco.
La sepoltura
Leopardi era morto all'età di 39 anni, in un periodo in cui il colera stava colpendo la città di Napoli. Grazie ad Antonio Ranieri, che fece interessare della questione il ministro di Polizia, le sue spoglie – questa la versione accettata– non furono gettate in una fossa comune, come le severe norme igieniche richiedevano a causa dell'epidemia, ma inumate nella cripta e poi nell'atrio della chiesa di Chiesa di San Vitale Martire, sulla via di Pozzuoli presso Fuorigrotta. La lapide, spostata poi con la tomba, fu dettata da Pietro Giordani:
«AL CONTE GIACOMO LEOPARDI RECANATESE
FILOLOGO AMMIRATO FVORI D'ITALIA
SCRITTORE DI FILOSOFIA E DI POESIE ALTISSIMO
DA PARAGONARE SOLAMENTE COI GRECI
CHE FINÌ DI XXXIX ANNI LA VITA
PER CONTINVE MALATTIE MISERRIMA
FECE ANTONIO RANIERI
PER SETTE ANNI FINO ALLA ESTREMA ORA CONGIVNTO
ALL'AMICO ADORATO MDCCCXXXVII»
In realtà fin dall'inizio il racconto di Ranieri era apparso pieno di contraddizioni e molti furono i dubbi che avvolsero quanto egli aveva dichiarato, anche perché le sue versioni furono molte e diverse a seconda dell'interlocutore, facendo sospettare che il corpo del poeta fosse finito nelle fosse comuni del cimitero delle Fontanelle, destinato ai morti per colera, come attesta il registro delle sepolture della Chiesa SS. Annunziata a Fonseca di Napoli, e che Ranieri avesse inscenato un funerale a bara vuota, con la partecipazione dei suoi fratelli, di un chirurgo e di un parroco compiacente. Comunque, Ranieri continuò ad affermare che le ossa erano nell'atrio della chiesa di S. Vitale e che il certificato di inumazione fosse un falso redatto su sua richiesta dal Ministro di Polizia. Nel 1898, durante i lavori di restauro, un muratore ruppe inavvertitamente la cassa, danneggiata dalla troppa umidità, frantumando le ossa e provocando la perdita di parte dei resti contenuti. Il 21 luglio 1900 venne effettuata la ricognizione delle spoglie del recanatese e nella cassa, troppo piccola per contenere lo scheletro di un uomo con doppia gibbosità, vennero rinvenuti soltanto frammenti d'ossa (tra cui un femore intero, forse troppo lungo per una persona di bassa statura, e uno a pezzi), una tavola di legno (con cui gli operai avevano tentato di riparare il danno alla cassa), una scarpa col tacco e alcuni stracci, mentre nessuna traccia vi era del cranio e del resto dello scheletro. Nonostante i dubbi la questione venne ben presto chiusa. La scarpa, o quello che ne rimaneva, venne poi acquistata dal tenore Beniamino Gigli, concittadino di Leopardi, e donata alla città di Recanati.
Nel 1939 la cassa, per volontà di Benito Mussolini, venne riesumata fu spostata al Parco Vergiliano a Piedigrotta (altrimenti detto Parco della tomba di Virgilio) nel quartiere Mergellina - il luogo fu poi dichiarato monumento nazionale - dove tuttora sorge appunto il secondo sepolcro del poeta, eretto quello stesso anno; nei pressi venne traslata anche la lapide originale. Nel 2004 venne anche chiesta (da parte dello studioso leonardiano Silvano Vinceti, che si è occupato anche della riesumazione e identificazione dei resti di Caravaggio, Boiardo e Monna Lisa) la riesumazione onde verificare se quei pochi resti fossero davvero di Leopardi tramite l'esame del DNA e del mtDNA, comparato con quello degli attuali eredi dei conti Leopardi (discendenti diretti del fratello minore Pierfrancesco) e dei marchesi Antici, ma la richiesta fu respinta, sia dalla Soprintendenza sia dalla famiglia Leopardi.
Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera
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