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Giosuè Carducci
(✶1835 †1907)
L'arrivo a Bologna
Nel gennaio 1860 a Torino era stato nominato ministro dell'istruzione Terenzio Mamiani. Nonostante questi fosse in uggia al cugino Leopardi, che ne celebrò ironicamente «le magnifiche sorti e progressive», né fosse gradito al Mazzini, Carducci lo aveva sempre tenuto in grande stima, tanto da includerlo nel ristretto gruppo dei sei dedicatari delle Rime del 1857, al cui interno vi erano per Mamiani una dedica e un sonetto.È del tutto naturale quindi che il nome di Giosuè gli fosse amico, e conscio del suo straordinario talento, già il 4 marzo così gli scrisse: «La fortuna togliemi per il presente di poterle offerire una cattedra di eloquenza italiana in qualche Università, come porterebbe il suo merito», aggiungendo che per il momento gli sarebbe stato grato se avesse accettato un liceo a Torino o Milano in attesa di arrivare a breve più in alto.
Con gratitudine Carducci, pur declinando i venti del Nord della penisola - per non allontanarsi troppo dalla famiglia - si dimostrò pronto ad accettare la nomina presso qualsiasi università. Intanto i mesi passavano e il periodo pistoiese diventava gradevole, in quanto consentiva numerose sortite fiorentine, nella città in cui sognava di insegnare. Il 18 agosto, però, Carducci ricevette da Mamiani una lettera in cui gli comunicava che Giovanni Prati, «per ragioni al tutto speciali», aveva ricusato la nomina a professore di Eloquenza presso l'Ateneo Felsineo, e sarebbe quindi stato onorato nel sapere il Carducci disposto ad accettare la cattedra.
Così, con decreto del 26 settembre 1860 venne incaricato dal Mamiani a tenere la cattedra di Eloquenza italiana, in seguito chiamata Letteratura italiana presso l'Università di Bologna, dove rimarrà in carica fino al 1904.
«La sera del 10 novembre 1860 la diligenza di Firenze si fermava dinnanzi alla posta di Bologna, e ne saltava giù un giovane dall'aspetto irsuto e quasi selvatico, impaziente di uscir fuori dall'aria soffocante della vettura chiusa durante un così lungo viaggio.»
Ad accoglierlo c'era un giovane insegnante veneto, Emilio Teza, nominato quell'anno professore di Letterature comparate nell'Ateneo. Questi l'accompagnò in un alloggio provvisorio sito in Piazza dei Caprara, e gli mostrò poi la città, che apprezzò molto. Nei primi tempi passarono assieme molto tempo, e anche successivamente fu uno dei pochi che Carducci frequentò, chiuso in casa a studiare e preparare i corsi o nell'aula universitaria a fare lezione.
Carducci prendeva il posto di monsignor Gaetano Golfieri, bolognese, estroso poeta estemporaneo i cui sonetti celebrativi per eventi di ogni sorta - lauree, matrimoni, guarigioni, ecc. - erano noti in tutta Bologna e venivano affissi alle colonne della città. La loro fama si diffuse anche nella campagna circostante. Avendo rifiutato di partecipare al Te Deum nella basilica di San Petronio in occasione del plebiscito, fu esonerato dall'incarico di professore, e perdette anche il titolo di dottore collegiato della Facoltà, quando rifiutò di prestare giuramento al re d'Italia. Si consolò quindi mantenendo il ruolo indiscusso di autore ufficiale di sonetti.
La prima fatica di Carducci consistette nella preparazione della prolusione, pronunciata il 27 novembre in un'aula gremita e che, ampliata notevolmente, andò a comporre i cinque discorsi Dello svolgimento della letteratura nazionale. Il 3 dicembre fu raggiunto dalla famiglia, con cui si accomodò alla meglio in una piccola abitazione presso San Salvatore, per passare a maggio - che a Bologna è il tempo degli sgomberi - in via Broccaindosso, stradina fra le più modeste della città in cui sarebbe rimasto fino al 1876.
Il 15 gennaio cominciò le lezioni: il programma prevedeva lo studio della letteratura italiana prima di Dante. L'università felsinea viveva un periodo di degrado cronico, e non era che l'ombra dello splendore dei secoli passati. Il numero degli allievi del neoprofessore andò via via calando, «perché la lezione di diritto commerciale messa su ultimamente mi toglie tutti i giovani», finché la mattina del 22 non poté nemmeno fare lezione, essendosi presentati solo in tre.
Intanto molte idee si affastellavano nella testa del Carducci, e molti progetti. Scriveva un saggio su Giovita Scalvini, pensava ad una biografia leopardiana per la Galleria contemporanea e continuava a lavorare all'edizione polizianea. Tutto ciò gli toglieva tempo per le creazioni poetiche, ma non si arrendeva, tanto che aveva in mente di comporre una canzone sul monumento a Leopardi, un canto in terzine su Roma, un'ode intitolata La plebe e molto altro, senza contare la prosecuzione dell'avventura barberiana, per la cui collezione Diamante erano ormai pronte le Rime di Cino e d'altri del secolo XIV, per le quali chiedeva notizie agli amici fiorentini che potevano vedere direttamente i codici.
E poi? Poemi filosofici, e una «marsigliese italiana per le future battaglie». Voleva far uscire entro la fine del 1861 anche un volume di prose, ma non se ne fece nulla. Tutto questo lungo elenco di opere restava a livello di abbozzo - in parte poi tradotto in pratica - perché l'occupazione primaria rimanevano il lavoro e lo studio, fondamentali per forgiare nel modo più compiuto l'autore degli anni a venire.
Agli ultimi di luglio del 1861 Gargani raggiunse l'amico, alquanto lieto, a Bologna, e insieme passarono il mese di agosto a Firenze, dove il mese successivo li raggiunse anche Chiarini, che nel frattempo si era stabilito a Torino per collaborare alla Rivista italiana. Fu una riunione felicissima, e trascorsero giorni indimenticabili, mentre Gargani sprizzava gioia da tutti i pori: era promesso sposo della sorella di Enrico Nencioni.
Passata l'estate, però, il 24 ottobre Chiarini ricevette da colui che doveva convolare alle fiaccole imenee una lettera disperata; era stato abbandonato dalla fanciulla, e quella sera stessa il Carducci sarebbe corso a Firenze per chiederne ragione. La spedizione non ebbe successo, e il Gargani, da sempre cagionevole di salute, si ammalò di tisi, e la malattia peggiorò rapidamente. Tra febbraio e marzo Giosuè andava e veniva dal suo capezzale, finché il 29 marzo Gargani morì. Fu un lutto severo per il Nostro; un mese dopo faceva comparire sul giornale fiorentino Le veglie letterarie uno scritto in sua memoria, e gli dedicò poi alcuni versi della poesia Congedo che avrebbe chiuso l'edizione dei Levia Gravia nel 1868.
Nel secondo anno bolognese tenne un corso su Petrarca, mentre scriveva al Chiarini come fosse sua intenzione non staccarsi per molti anni dall'approfondimento della triade portante - Dante, Petrarca, Boccaccio - della letteratura italiana. Solo in seguito si sarebbe potuti passare «agli architravi e alle parti del tempio», ossia ai secoli successivi. L'alleanza di Ricasoli con il Papa intanto lo metteva di cattivo umore e andò inasprendo la sua tendenza anti-cattolica, aiutato in questo da una città che meno di Firenze scendeva a compromessi.
Nel 1861 la Massoneria aveva ritrovato una grande influenza politica, incarnando i valori del patriottismo e del Risorgimento italiano. Diventò un punto di passaggio obbligato per i fautori dell'unità nazionale, tanto che lo stesso Garibaldi si fece massone, mentre Giosuè fu iniziato nella Loggia «Galvani» di Bologna subito dopo la Giornata dell'Aspromonte, e la poesia Dopo Aspromonte volle essere il manifesto di questo ingresso, un'esaltazione del «Trasibul di Caprera» unita a un'aspra critica verso Napoleone III, all'interno di un tessuto narrativo pesantemente segnato dalla lettura degli Châtiments di Victor Hugo, cui Carducci unì un anti-cattolicismo più sferzante.
Strinse quindi amicizia con uomini politici in vista e dopo l'università entrava al Caffè dei Cacciatori per poi recarsi in Loggia, e quindi percorreva i porticati discutendo con furore di politica e d'arte. In via Broccaindosso nel contempo cominciarono a soffiare i venti stranieri. Dopo aver giocato con la Bice, serrato nella sua stanza subiva sempre più il fascino degli autori d'oltralpe. Leggeva Michelet, Hugo, Proudhon, Quinet. Il primo gli trasmise il gusto di concepire la storia come un immenso tribunale, dove i poeti erano gli accusatori, mentre Quinet e Proudhon gli aprivano sempre più gli occhi sulla realtà di una Chiesa che aveva tradito il mandato divino.
«Tu solo, o Satana, animi e fecondi il lavoro, tu nobiliti le ricchezze. Spera ancora, o proscritto», scriveva Proudhon. Michelet produceva le prove storiche dell'ingiustizia perpetrata ai danni di Satana, identificato con la scienza e la natura, sacrificate alla mortificazione cristiana. Figura di martire politico in Proudhon, venato di riflessi scientifici in Michelet, Satana diveniva emblema del progresso e «del prodigioso edificio ... delle istituzioni moderne», simbolo di una verità brutalmente calpestata o occultata dal clero.
Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera
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