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Giosuè Carducci
(✶1835 †1907)
Furono dunque questi i prodromi del celebre inno A Satana. Recatosi a Firenze nel settembre 1863 per la stampa dell'opera sul Poliziano, in una nottata insonne gli ruppe dal cuore l'Inno, composto da cinquanta quartine di senari secondo lo schema ABCB. Lo definì «chitarronata», non riuscito nello stile ma foriero di verità. «L'Italia col tempo dovrebbe innalzarmi una statua, pel merito civile dell'aver sacrificato la mia coscienza d'artista al desiderio di risvegliar qualcuno o qualcosa... perché allora io fu un gran vigliacco dell'arte», scriverà anni dopo.
Il 16 ottobre pubblicò l'edizione critica delle opere polizianee, che fece molto scalpore e suscitò notevole ammirazione non solo per la dottrina espressa, ma anche perché era la prima volta che il testo di uno scrittore italiano veniva emendato secondo i dettami della moderna critica testuale. Fervente continuava ad essere anche la collaborazione col Barbera; nel 1862 pubblicò le Poesie di Cino da Pistoia e i Canti e Poemi di Vincenzo Monti. L'anno successivo si dedicò al De rerum natura lucreziano tradotto dal Marchetti, dandolo alle stampe, sempre per la Collezione Diamante, nel 1864.
Il 1864 fu anche l'anno di nascita di Laura, la figlia secondogenita. Dopo l'omaggio dantesco, quindi, non poteva mancare quello petrarchesco.
Affiliato alla Massoneria del Grande Oriente d'Italia sin dal 1862, nel 1866 fu tra i fondatori della Loggia bolognese "Felsinea", e ne divenne il segretario, ma assunse «ben presto un orientamento contrario al rito scozzese dell'Ordine». Dopo aver scritto un opuscolo di protesta, per conto della Loggia "Felsinea", nel 1867 la loggia fu sciolta dal Gran maestro Lodovico Frapolli e Carducci fu espulso dalla Massoneria. «E il Carducci non se ne occupò mai più, anche se più tardi reiscritto ed accarezzato da uomini di gran nome come Adriano Lemmi ed Ernesto Nathan». Con il nuovo Gran maestro Adriano Lemmi Carducci fu affiliato il 20 aprile 1886 alla Loggia "Propaganda massonica" di Roma, dove raggiunse il 33° e massimo grado del Rito scozzese antico ed accettato.
Negli anni del trasformismo il poeta conquistò un posto centrale nella struttura ideologica e culturale dell'Italia umbertina, giungendo ad abbracciare le idee politiche di Francesco Crispi. Il 30 settembre 1894 pronunciò il discorso per l'inaugurazione del nuovo Palazzo degli Offici (ora Palazzo Pubblico) nella Repubblica di San Marino.
Nel 1865 pubblicò a Pistoia, in un piccolissimo numero di esemplari e fuori commercio, l'Inno a Satana, con lo pseudonimo di Enotrio Romano, che dovette usare fino al 1877, accompagnandolo talvolta al nome vero. Tra il 1863 e il 1865 scrisse per la Rivista italiana che, fondata dal Mamiani, era passata sotto la direzione di Chiarini, e accolse scritti carducciani sulla lirica italiana dei secoli XIII e XIV. Imponente è il materiale raccolto in questi anni per opere di erudizione letteraria; meritano menzione il discorso sulle Rime di Dante e i tre raccolti con il titolo Della varia fortuna di Dante e pubblicati su Nuova Antologia tra il 1866 e il 1867.
I primi dieci anni bolognesi furono nel complesso tranquilli. Col tempo il soggiorno venne allietato da illustri relazioni che riuscì a stabilire; le più significative furono quelle con Francesco Rocchi, insigne studioso di epigrafia, con Pietro Ellero, Enrico Panzacchi, Giuseppe Ceneri, Quirico Filopanti e Pietro Piazza.
La poesia laica
La sua poesia, intanto, sotto l'influsso delle letterature straniere ed in particolare di quella francese e tedesca, divenne sempre più improntata di laicismo, mentre le sue idee politiche andavano orientandosi in senso repubblicano. Si dedicò seriamente allo studio del tedesco con l'aiuto di un maestro, tanto che in breve tempo riuscì a padroneggiare i poeti più difficili e amati, quali Klopstock, Goethe, Schiller, Uhland, Von Platen, Heine.Nell'agosto 1867 fu invitato a trascorrere a Pieve Santo Stefano, nella Valle Tiberina, un periodo in casa della famiglia Corazzini, che tra i propri membri annoverava il giovane Odoardo, che presto sarebbe morto nella battaglia di Mentana. Pur preoccupato dal succedersi degli eventi politici, il Carducci riuscì, condividendo la vita di campagna sana e naturale dei Corazzini così congeniale al suo modus vivendi, a ritemprare lo spirito e a distendersi. Insieme visitarono le sorgenti del Tevere, e la lieta esperienza estiva fu fonte di ispirazione per la poesia Agli amici della Pieve, poi divenuta Agli amici della valle Tiberina, considerato il suo primo epodo, metro che assurse, insieme al giambo, a protagonista della successiva fase carducciana.
Gli entusiasmi si accesero subito dopo per la spedizione garibaldina su Roma, ma il dolore colse il poeta nel profondo alla notizia della morte di Enrico Cairoli (e del ferimento di Giovanni, che morirà due anni dopo per le ferite riportate nello scontro) a Villa Glori e della prigionia di Garibaldi alla fortezza del Varignano. L'ira fu espressa nelle strofe del Meminisse horret, scritto a Firenze ai primi di novembre. Venuto a conoscenza, poco dopo, della morte di Odoardo Corazzini, scrisse in suo ricordo il famoso epodo, pubblicato per il democratico giornale bolognese L'Amico del Popolo nel gennaio del 1868 e subito stampato presso una tipografia cittadina. Anche questo testo, come Dopo Aspromonte, attinge a piene mani alla poesia politica di Victor Hugo.
Mentana non piacque alla Massoneria, e il Gran Maestro Fripolli proclamò la chiusura delle logge bolognesi. Il Carducci manifestò allora il proprio spirito mazziniano in modo violento e nel novembre un decreto governativo lo trasferiva per punizione dalla cattedra bolognese a quella di latino dell'Università di Napoli. Valendosi dell'appoggio del ministro dell'Interno Filippo Antonio Gualterio - presso cui chiese al Barbera di intercedere - e promettendo di non occuparsi di politica, Carducci riuscì a rimanere a Bologna, anche se una successiva intemperanza gli procurò una sospensione temporanea dall'insegnamento.
Pubblicò, il 1º giugno 1868, presso la tipografia Niccolai e Quarteroni di Pistoia, la raccolta Levia Gravia con lo pseudonimo di Enotrio Romano, composta da gran parte delle rime samminiatesi e da una ventina di nuove poesie. Ne rimasero esclusi i testi politici, che pure aveva composto e che infiammavano le logge bolognesi. Il poeta volle che ne fossero stampati pochi esemplari, e che fossero regalati ad amici e intenditori.
L'opera non ebbe successo. Carducci riconobbe in futuro che in quella situazione la pubblicazione degli epodi polemici avrebbe senz'altro suscitato maggiore interesse e infiammato il pubblico, nell'acquisita consapevolezza che la prudenza politica è cattiva ispiratrice artistica. Nel 1868 però non ragionava così; si indignò per la pecoraggine del pubblico e si scagliò contro i sedicenti critici democratici, che volevano solo «discorsoni e versoni». Si scontrò duramente con i colleghi di università Francesco Fiorentino, Angelo Camillo De Meis e Quirico Filopanti, si allontanò dalla Massoneria e attraversò un periodo di forte misantropia.
«Io alle volte ho paura di me stesso: quando rivolgendo l'occhio al mio di dentro, veggo che non istimo e non amo quasi più nessuno, che m'infingo in continuo sforzo, per non mostrare a quelli con cui discorro quanto sono buffoni e sputacchiabili», scriverà qualche mese più tardi.
La politica però continuava a fomentare nell'animo del Nostro forti passioni; il 22 ottobre i garibaldini Monti e Tognetti fecero esplodere una bomba alla caserma Serristori di Roma provocando la morte di 23 soldati francesi e quattro passanti, tra cui una bambina. Il 24 novembre furono ghigliottinati, e lo stesso mese Carducci compose l'epodo in loro memoria, facendolo subito comparire ne La Riforma e poi proposto in opuscoletto ancora da Niccolai e Quarteroni, con incasso delle vendite da devolversi ai familiari dei decapitati.
È un Carducci rabbioso quello che traspare dalle poesie politiche; inveisce ferocemente contro Papa Pio IX che immagina lieto per la decapitazione dei due rivoluzionari, mugugna per la sostituzione del nome di via dei Vetturini con quello di via Ugo Bassi (Via Ugo Bassi), il 1º novembre commemora lugubremente i morti senza pace (Nostri santi e nostri morti), e raggiunge l'acme con il disperato grido di In morte di Giovanni Cairoli:
«Accoglietemi, udite, o eroi
esercito gentile:
triste novella io recherò fra voi
la nostra patria è vile»
Se questo fu l'anno della rabbia, il successivo fu quello del dolore. Il 3 febbraio 1870 si spense la madre, cui era legatissimo e per cui nutriva una sorta di venerazione. Il dolore fu forte, ma non poté eguagliare quello della perdita del figlio prediletto Dante, nato il 21 giugno 1867 e morto il 9 novembre 1870. Dante cresceva forte e sano, e il padre lo amava smisuratamente. La morte fu improvvisa e imprevedibile. Giosuè, distrutto, si lasciò per qualche tempo andare allo scoramento più totale: «Non voglio far più nulla. Voglio inabissarmi, annichilirmi», scrisse in una lettera del 23 dicembre.
A Dante dedicò le celeberrime quattro quartine di Pianto antico.
Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera
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