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Ignazio Silone
(✶1900 †1978)
Ma Silone rimase anche subito deluso dall'incapacità di dialogo dei bolscevichi (Lenin compreso) saliti al potere, appena ebbe modo, a Mosca, di conoscerli da vicino:
«Ciò che mi colpì nei comunisti russi, anche in personalità veramente eccezionali come Lenin e Trotsky, era l'assoluta incapacità di discutere lealmente le opinioni contrarie alle proprie. Il dissenziente, per il semplice fatto che osava contraddire, era senz'altro un opportunista, se non addirittura un traditore e un venduto. Un avversario in buona fede sembrava per i comunisti russi inconcepibile.»
Entra nelle simpatie di Bordiga che gli affida sovente incarichi esterni, come il controllo dei congressi locali del partito, su cui Silone stende puntuali relazioni ed inizia ad eseguire per conto del partito molte missioni politiche all'estero.
Nel periodo in cui il Fascismo inizia la sua scalata al potere (1922), Silone è a Trieste, impiegato nella redazione de Il Lavoratore, giornale che per la sua propaganda politica comunista viene più volte sottoposto a minacce ed attentati da parte dei fascisti; nella città giuliana vive il suo rapporto sentimentale con Gabriella Seidenfeld, ebrea fiumana di origine ungherese conosciuta un anno prima durante uno dei suoi frequenti viaggi politici all'estero. Alla fine dell'anno, in seguito all'opera repressiva sempre più intensa, che colpisce tra i tanti, anche il suo giornale, Silone viene arrestato.
Uscito di prigione, col nome di battaglia di "Romano Simone" parte per Berlino, luogo di rifugio di numerosi esuli politici in fuga dall'ondata di arresti che, in quei primi mesi del 1923, colpisce duramente l'organizzazione comunista; subito dopo però, l'Internazionale Giovanile lo invia in missione in Spagna, dove Silone si dedica a fare il corrispondente di un giornale dei comunisti francesi e in seguito ad un foglio di comunisti catalani di Barcellona, ma la sua sovraesposizione non gli consente una più lunga permanenza e riesce a farsi liberare in extremis da un arresto, grazie ai buoni uffici di una suora; non va bene invece alla sua Gabriella, che deve subire un periodo di detenzione a Madrid.
Vive per un periodo a Parigi, città nella quale è redattore del giornale La Riscossa e qui ritrova la compagnia di Gabriella, ma, ancora una volta, a causa della sua intensa attività politica, viene notato dalla polizia francese, arrestato ed estradato in Italia, dove fa ritorno all'inizio del 1925.
Controllato dalla polizia, si rifugia nella sua Pescina dove conduce una vita ritirata, ma non per questo meno densa di contatti con il partito nel quale inizia ad avvicinarsi alle posizioni filo-moscovite di Gramsci e per il quale inizia a lavorare, voluto proprio da Gramsci, con incarichi alla Commissione stampa e propaganda.
Nel periodo che segue la morte di Lenin, e dopo un nuovo soggiorno moscovita, Silone prende sempre più atto con orrore del regime totalitario che Stalin sta instaurando in Russia; un regime in cui, come scriverà più tardi in Uscita di sicurezza, ogni divergenza di opinione col gruppo dirigente «era destinata a concludersi con l'annientamento fisico da parte dello stato».
Nel 1926, in seguito al giro di vite del regime fascista, il Partito Comunista entra nella clandestinità, trasferendo la segreteria politica a Sturla; qui, con Camilla Ravera ed altri esponenti del partito, si trasferisce anche Silone, prendendo alloggio in un edificio da lui ribattezzato "la casa dell'ortolano" (per l'orto incolto antistante che funge da copertura) e da dove inizia ad occuparsi di far stampare l'Unità e di tenere i contatti con le organizzazioni di base.
Nel maggio del 1927 viene inviato come delegato all'VIII Plenum dell'Internazionale e si reca a Mosca con Palmiro Togliatti. Da questa nuova esperienza russa esce amareggiato, sia per il malanimo serpeggiante contro la delegazione italiana, sia per la piega che prende il congresso che decreta l'espulsione di Grigorij Zinov'ev, critico verso lo stalinismo, cui seguirà qualche tempo dopo quella più clamorosa di Lev Trotsky.
L'arresto del fratello Romolo (1928) e la sua odissea in carcere (vedi nota a lato) lasciano il segno in Silone che negherà anche negli anni successivi che il fratello si sia mai iscritto al Partito Comunista, nonostante le conferme di Romolo stesso e di altre testimonianze accreditate.
Intanto il centro estero del partito si trasferisce in Svizzera e Silone sceglie l'esilio prima a Lugano e successivamente nella più sicura Basilea; dalla Svizzera compie tuttavia numerose sortite in Italia, dove rischia più volte l'arresto, riuscendo sempre a cavarsela, in un'occasione anche grazie al provvidenziale intervento di Don Orione.
Dopo l'espulsione di Angelo Tasca dal partito, colpevole di aver sposato una linea eccessivamente anti-stalinista e la successiva frattura del gruppo dirigente con i "dissidenti" Pietro Tresso, Alfonso Leonetti e Paolo Ravazzoli che contrastano la pragmatica linea togliattiana ormai ripiegata su quella di Stalin, Silone è sospettato di aver sposato le posizioni del "gruppo dei tre". Conseguentemente alla vittoria di Stalin a Mosca il 9 giugno 1930, i tre vengono espulsi dal partito. Poco dopo tocca a Silone, che apprende la notizia della sua espulsione il 4 luglio 1931 tramite un comunicato del Partito comunista svizzero, mentre si trova nel sanatorio di Davos per curare la tisi che lo tormenta da anni. Indro Montanelli ha ricostruito come segue i passaggi di questa vicenda:
«Silone aveva già assistito all'eliminazione del gruppo di Trotsky, Zinov'ev e Kamenev. Ma, non avendo dovuto parteciparvi, era riuscito a vincere il disgusto. Poco tempo dopo però Togliatti gli chiese perentoriamente un gesto di solidarietà, o meglio di complicità, nel linciaggio politico e morale di tre compagni italiani - Leonetti, Ravazzoli e Tresso -, sulla cui dirittura e lealtà non c'erano dubbi. Togliatti stesso redasse la dichiarazione e vi appose a macchina il nome di Silone, convinto che costui, pur non avendola controfirmata di sua mano, non l'avrebbe mai invalidata.
Infatti Silone non la invalidò. Ma furono gli avvenimenti che s'incaricarono di farlo. Egli scrisse a Tresso una lettera strettamente confidenziale in cui manifestava il suo dissenso sia da lui che da coloro che l'avevano scomunicato e dai metodi che avevano usato. Non si sa come, ma non per colpa del destinatario, quella missiva cadde in mano ai gruppi trotzkisti che ne pubblicarono sui loro giornali i brandelli, abilmenti ritagliati, che facevano comodo alle loro tesi. I dirigenti di Mosca misero a confronto quel documento con la dichiarazione "rilasciata" a Togliatti. E così, in base a questi due smaccati falsi, Silone venne accusato di doppio giuoco e espulso dal partito.»
Amareggiato e disgustato ormai dalla politica, Silone rinuncia praticamente a difendersi dalle accuse che gli vengono mosse, tra le quali quella di essere un trotskista, e conclude così la sua avventura nel Partito Comunista. Spiegherà poi:
«Avrei potuto difendermi. Avrei potuto provare la mia buona fede. Avrei potuto dimostrare la mia non appartenenza alla fazione trozkista. Avrei potuto raccontare come si era svolta la scena della pretesa dichiarazione da me "rilasciata" a Togliatti. Avrei potuto; ma non volli. In un attimo ebbi la chiarissima percezione dell'inanità d'ogni furberia, tattica, attesa, compromesso. Dopo un mese, dopo due anni, mi sarei ritrovato daccapo. Era meglio finirla una volta per sempre. Non dovevo lasciarmi sfuggire quella nuova, provvidenziale occasione, quella uscita di sicurezza.»
Il dramma di Romolo
Il 12 aprile 1928 un attentato a Milano, pochi minuti prima dell'arrivo del re Vittorio Emanuele III, provoca 20 morti e 23 feriti. Dopo 6 giorni, a Como, viene arrestato con l'accusa di essere il responsabile della strage, Romolo Tranquilli, fratello minore di Ignazio. Nonostante l'interessamento di Don Orione, certo dell'innocenza del giovane, che riuscirà ad andare a trovare al carcere di Marassi, a Genova, Romolo non può provare la sua innocenza e, subendo pesanti vessazioni fisiche e morali, viene trasferito prima a Roma, e successivamente al carcere di Procida. Il 6 giugno 1931 viene condannato dal Tribunale Speciale a 12 anni di reclusione, per il tentato attraversamento del confine privo di documenti e per macchinazioni politiche contro il regime (nel frattempo il capo di imputazione di strage era caduto). Dal duro carcere di Procida, Romolo, in isolamento, corrisponde con Don Orione, con il cugino Pomponio e, naturalmente con il fratello. Silone, colpito duramente dalle notizie sul fratello, apprende della sua morte in carcere nel 1932, e non amerà mai molto ricordare i fatti tragici di cui fu protagonista il suo Romolo. Dirà più tardi la moglie dello scrittore Darina: «A Zurigo dove lo conobbi, mi aveva raccontato un po' alla volta la tragica storia di suo fratello: senza dettagli e senza emozione. Dovevo ascoltarlo in silenzio: la minima parola mia gli faceva subito cambiare argomento».Il successo letterario
Inizia un periodo molto buio per Silone. Fuori dal partito per cui si era speso per tanti anni, ammalato, esule braccato e ricercato e privo di mezzi di sostentamento tanto più che gli vengono anche a mancare i contributi del partito e moralmente provato dal dramma del fratello, trova inaspettatamente una via d'uscita allo stato di prostrazione in cui è precipitato e che sarà la sua fortuna: la letteratura.Nel 1929-30, durante il suo soggiorno svizzero di Davos e Ascona, in pochi mesi scrive il suo capolavoro letterario, Fontamara dandogli il nome di un immaginario paesino dell'Abruzzo, con luoghi presi dalla memoria dell'infanzia pescinese dell'autore e che narra della vicenda di umili contadini, i "cafoni" appunto, in rivolta contro i "potenti" per un corso d'acqua deviato che irrigava le loro campagne. Il romanzo, che rappresenterà uno dei casi letterari del secolo, viene pubblicato soltanto nel 1933 a Zurigo, dove nel frattempo Silone si trasferisce entrando in contatto con l'ambiente fervido culturalmente che la città offre anche grazie alla presenza di numerosi rifugiati politici in cui spiccano importanti artisti, intellettuali, letterati. Così lo scrittore sulla genesi del romanzo:
«...credevo di non aver più molto da vivere e allora mi misi a scrivere un racconto al quale posi il nome di Fontamara. Mi fabbricai da me un villaggio, col materiale degli amari ricordi e dell'immaginazione, ed io stesso cominciai a viverci dentro. Ne risultò un racconto abbastanza semplice, anzi con delle pagine francamente rozze, ma per l'intensa nostalgia e amore che l'animava, commosse lettori di vari paesi in misura per me inattesa.»
Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera
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