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Massimo d'Azeglio
(✶1798   †1866)

Così, colui che sperava ritornare a dipingere ed abbandonare il guazzabuglio politico, si ritrovava pienamente impelagato in una nuova e difficile temperie governativa. «Per quanto la salute e la testa non mi reggano, ho però ubbidito onde non aver mai a rimproverami d'essermi rifiutato quando il paese era in pericolo».

La seconda legislatura cominciò con le inaspettate manifestazioni di calore e vicinanza giunte dall'Inghilterra, dove il conte di Malmesbury, Ministro degli Esteri, elogiò d'Azeglio durante una seduta della Camera dei Lord, mentre Lord Palmerston e Disraeli parlarono in favore del Nostro alla Camera dei Comuni. Palmerston arrivò addirittura a definire la Costituzione sarda come un modello che tutte le nazioni d'Europa avrebbero dovuto imitare.

Tornata l'estate, d'Azeglio scelse ancora la costa ligure, soggiornando a Cornigliano. In questa stessa località, il 16 settembre Alessandrina, la sua unica figlia, si unì in matrimonio con il marchese Matteo Ricci, in una celebrazione cui fecero da testimoni Alessandro Manzoni (nonno materno della sposa) e Emanuele d'Azeglio. L'autore dei Promessi Sposi conservò una viva emozione di quella giornata, felicitandosi con Teresa Borri, sua seconda moglie, per il partito della nipote, che «non poteva essere più fortunata». Anche Massimo approvava con gioia l'unione, una sorta di toccasana capace di alleviare in parte il peso della carica pubblica, nonostante la separazione dolorosa dalla figlia: «questo matrimonio di Rina, così conveniente per tutt'i versi, mi fa proprio l'effetto di un compenso o di un riposo, che ha voluto accordarmi la Provvidenza [...] Anche a Rina, poverina, rincresce separarsi da me (perdoni la fatuità). Ma la vita è prosa e non romanzo, e bisogna spesso, anzi sempre, sagrificare l'amor che vi contenta all'amor che vi affligge, che è il solo vero e il solo utile», scrisse il 18 settembre alla marchesa Marianna Trivulzio Rinuccini, con il consueto fiducioso abbandono nella fede cristiana.

Era solo un lampo, la crisi governativa andava nuovamente acuendosi e il Re protestava vivacemente contro le decisioni della Camera, che aveva approvato in una seduta di fine luglio la legge sul matrimonio civile, creando una nuova rottura nei rapporti con lo Stato Pontificio. D'altra parte, lo stesso d'Azeglio, sempre sofferente per la ferita alla gamba rimediata nella ritirata di Monte Berico ed esausto per il prolungarsi di un ruolo vissuto sin dall'inizio come puro sacrificio, non vedeva «l'ora di mutar mestiere». Il 22 ottobre prese la decisione definitiva: recatosi a Stupinigi, rimise il proprio mandato nelle mani del Re proponendo Cavour come successore.

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Dopo la Presidenza: continua l'impegno politico

Tornato ad essere «un semplice mortale», promise sostegno al suo successore, aspirando soprattutto a tornare ad una vita lontana dai veleni della politica e dedita alla sua vera grande passione: la pittura. Nell'autunno del 1852 veniva a sapere dalla moglie Luisa che erano stati ritrovati album e studi di quadri accantonati parecchi anni prima. D'Azeglio chiese con insistenza di riaverli, rivolgendosi anche a quanti ricordava di averne prestati. Poiché il nipote Emanuele si trovava in Inghilterra, gli chiese di ottenere per lui commissioni artistiche, e lo scopo non tardò a realizzarsi. D'Azeglio si recò oltre la Manica per i numerosi lavori che gli erano stati offerti, desideroso di ringraziare inoltre quegli uomini politici che lo avevano sostenuto negli anni trascorsi alla Presidenza del Consiglio. A Londra fu ricevuto dalla Regina Vittoria e da Alberto, che lo invitarono a pranzo a corte.

Rifiutò inoltre tutte le onorificenze di cui voleva insignirlo il sovrano (tra queste, la nomina a Generale e quella a Cavaliere dell'ordine supremo dell'Annunziata). Tuttavia, pur volendo ritirarsi dalla cosa pubblica, continuava, per necessità e per amor di patria, a seguire da vicino l'evolversi della situazione politica: Cavour lo teneva in grande considerazione e si avvaleva costantemente del suo aiuto. Quando, nel dicembre 1854, il Piemonte guadagnò rilevanza internazionale aderendo all'alleanza con Francia e Inghilterra inviando un proprio contingente in Crimea – in risposta alle sollecitazioni delle due grandi potenze europee –, d'Azeglio si schierò tra i sostenitori dell'intervento. Il panorama politico era diviso sulla questione, tanto che il Ministro degli Esteri da Bormida si dimise protestando contro la decisione del governo, ma Cavour, favorevole all'alleanza, riuscì con la consueta abilità a prevalere, proponendo al Nostro un nuovo mandato alla Presidenza del Consiglio. D'Azeglio rifiutò l'offerta, ma sostenne Cavour nei propri obiettivi politici, conscio anch'egli dell'importanza decisiva di un futuro apporto francese e inglese per la causa risorgimentale.

L'alleanza fu votata il 10 febbraio alla Camera e il 3 marzo al Senato. Una lettera a Teresa Targioni del 25 gennaio, al pari di quanto scrisse un mese più tardi, certificano come d'Azeglio non avesse lesinato energie per giungere a questo risultato. Nello stesso periodo il clima politico viveva una situazione infuocata anche per l'approvazione della legge sui conventi, che prevedeva la soppressione delle corporazioni religiose. La reazione veemente del Cardinale Segretario di Stato Giacomo Antonelli chiamava in causa anche d'Azeglio; questi replicò stizzito con l'articolo Il Governo di Piemonte e la Corte di Roma, apparso su L'Opinione il 16 febbraio.

L'intervento in Crimea e la legge sui conventi erano per d'Azeglio due decisioni obbligate, anche se non se ne rallegrava: la guerra voleva pur sempre dire morti e lutti, e neppure la legge lo entusiasmava, «mal fatta e inopportuna e, secondo me, poco liberale. Ma anche questa è quasi una necessità farla passare».

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Intanto, una nuova estate chiamava una nuova villeggiatura, e il riposo veniva come sempre accolto con gioia. Quell'anno d'Azeglio stimò prudente rinunciare al previsto soggiorno toscano, visto che nella zona impazzava il colera, scatenatosi l'anno precedente e ancora molto pericoloso. Scelse quindi di trascorrere un periodo alla Certosa di Pesio, «a 3 ore da Cuneo ne' monti». Pochi giorni dopo il suo arrivo nella località rimase vittima di un incidente che avrebbe potuto rivelarsi fatale. Un diciottenne, volendo travestirsi da fantasma, pensò bene di mettersi al collo «un recipiente d'acquavite e sale accesi», facendo prendere fuoco al lenzuolo che aveva indossato. Per salvare il giovane, il Nostro si ustionò il volto, ma i danni non furono gravi e dopo qualche settimana i segni dell'incidente scomparvero.

In settembre Cavour volle che d'Azeglio si unisse a lui e al sovrano per il viaggio diplomatico in Francia, dove la delegazione doveva incontrare Napoleone III. La trasferta fu rinviata di due mesi a causa di un infortunio di caccia che aveva fatto temere per la vita di Vittorio Emanuele. Scampato il pericolo, a fine novembre i tre partirono alla volta di Parigi. Incontratisi a Lione, raggiunsero la grande città il 23, accolti calorosamente dall'imperatore e dalla consorte Eugenia. Napoleone riferì di avere a cuore la causa italiana. Il viaggio, estremamente faticoso, proseguì per l'Inghilterra, salutato da entusiasmi ancora maggiori, e ripassò da Parigi, finché a dicembre d'Azeglio ritrovò Torino, distrutto e reduce da un forte mal di denti che l'aveva trattenuto più del previsto in Francia, sottoposto alle cure del dottor Evans, il dentista americano dell'imperatore.

Massimo era stato l'ultimo a lasciare le terre di Napoleone, e prima di partire Cavour gli aveva affidato una commissione che gli era stata espressamente richiesta dall'imperatore. Questi, infatti, aveva incaricato il conte di scrivere confidenzialmente a Walewski «ce que vous croyez que je puisse faire pour le Piémont et l'Italie» (ciò che credete io possa fare per il Piemonte e per l'Italia), e il capo del governo aveva girato l'onere a d'Azeglio - il cui discorso regale di Londra aveva avuto grande successo -, molto abile in questo tipo di compiti e ottimo conoscitore della realtà piemontese.

D'Azeglio attese alla stesura (in francese) del documento con la massima cura e il massimo impegno, lavorandovi a dicembre e gennaio. Per quanto Cavour ne seguisse l'articolarsi con ammirazione e prodigalità di complimenti, si rese presto conto che lo scritto era eccessivamente curato e manifestamente troppo lungo. In più, mancavano conclusioni precise e pratiche. Pertanto il Presidente del Consiglio preferì sostituirlo con uno proprio.

Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera

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