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Paolo Giovio
(✶~1483   †1552)

Di poco posteriore è il De optima victus ratione, un trattato di igiene e dietetica, nel quale esprime, tra l'altro, la sua perplessità nei confronti della farmacologia e la necessità di migliorare la prevenzione, rispetto alle cure.

In esso, Paolo Giovio "consiglia all'amico Felice Trofino, alto prelato della corte di Clemente VII (e già cappellano e segretario di quest'ultimo quando era cardinale), dei metodi di cura, fondati su un tenore di vita sobrio e controllato piuttosto che sui preparati degli speziali. Per questo, raccomanda soprattutto esercizio fisico, nella convinzione che 'in tota arte medicinà non esista 'remedium vel latius vel salubrius moderata corporis exercitatione', un rimedio cioè più efficace e salutare del moderato esercizio fisico. Interessante poi la tesi secondo cui la malattia va, prima ancora che combattuta, prevenuta, adoperando ogni attenzione onde impedire la sua comparsa: ecco la necessità essenzialmente di quiete, frictionibus, cucurbitulis, unctione, balneis, clysteribus, simplicique parabilium et tutissimarum rerum administratione, di quiete cioè, di massaggi, di salassi, di frizioni, di bagni, di clisteri, dell'uso insomma di cose semplici e di preparati, facilmente procurabili e soprattutto assolutamente sicuri. Molta attenzione poi, secondo Giovio, deve essere riservata alla dieta: pasti regolari, dunque, cibi salutari, soprattutto verdura, carne (cacciagione e polleria), pesce ma ben cotto, niente droghe e intingoli indigesti e, affinché lo stomaco non si appesantisca, un conveniente e periodico uso di lassativi, a base soprattutto di infusi di erbe"

Sempre del 1524 è il libello Consultum de oleo, una sorta di richiesta di parere su un olio antipestilenziale; risale, invece, al 1525 la cosiddetta Moschovia, piccolo trattato corografico in cui si affronta una breve descrizione della Russia. Il libello, che tratta di storia, geografia, storia naturale e abitudini sociali della Russia degli inizi del Cinquecento è la prima opera proposta al pubblico europeo sull'argomento e nasce dalle frequentazioni, quasi quotidiane, che l'autore intrattiene con il legato del granduca moscovita, Dimitri Gerasimov, durante la permanenza a Roma di quest'ultimo e con il quale familiarizza ben presto. Sugli stessi argomenti ha modo di colloquiare a lungo anche con uno degli architetti italiani impegnati nella progettazione e costruzione del Cremlino, tanto da ricavarne in poco tempo nozioni e conoscenze piuttosto articolate e precise.

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Anteriore invece al 1528 è l'opera De hammocrysi lapidis virtutibus epistula, una sorta di perizia -attualmente perduta- su una pietra dai poteri astrologici citata dal solo Plinio il Vecchio in un passo della sua Naturalis historia. È, probabilmente, di questo periodo lo scambio di epigrammi polemici con Pietro Aretino, rientrato a Roma. Decisamente più rilevante è la stesura (1523/1527) di tre brevi, ma importanti biografie dedicate a Leonardo da Vinci, Raffaello Sanzio e Michelangelo Buonarroti Quella di quest'ultimo artista, la più estesa delle tre, contiene anche notizie circa Andrea Sansovino, Baccio Bandinelli e Cristoforo Solari, il Gobbo.

Il sacco di Roma

Dal punto di vista politico, Giovio segue con crescente preoccupazione il progressivo abbandono da parte di Clemente VII della strategia di alleanza con l'Impero. In questa delicata fase, l'umanista non cessa di richiamare, inascoltato, il Pontefice alla necessità di ritrovare un accordo con l'Asburgo.

Il cardinale Pompeo Colonna, organizza bande armate che mettono a saccheggio Roma, assediando il Papa. Clemente, a questo punto chiede l'intervento dell'Imperatore, promettendogli, in cambio della propria liberazione, di abbandonare la Lega filo francese. Una volta tornato libero, però il pontefice non mantiene i patti e si rivolge a Francesco I chiedendogli di intervenire a suo favore. Tuttavia, il sostanziale disimpegno del re di Francia I nella questione, essendo impegnato ancora nelle trattative per il riscatto dei figli, dati in pegno per la propria liberazione dopo la sconfitta di Pavia, inducono alla reazione l'Imperatore per tentare di risolvere definitivamente la questione italiana e francese.

Il violento saccheggio che ne seguì, da parte soprattutto delle truppe mercenarie reclutate da Carlo V, rappresenta per Giovio l'esito inevitabile del disastroso indirizzo politico seguito dalla Curia romana a partire dalla metà degli anni venti. Un'autentica, insanabile frattura che egli giudica scuotere alle fondamenta l'unità culturale dell'Europa, fondata sull'eredità del mondo greco e romano, interpretata attraverso l'esperienza della Chiesa cattolica. Una visione, peraltro, tutt'altro che "chiusa" nell'enfasi di un'antichità vagheggiata o "romanocentrica", alla base della quale si affacciano, al contrario, "quelle decise aperture intellettuali verso l'altro geografico, etnografico, culturale che contraddistingueranno il suo metodo storiografico". La vera universalità della Chiesa e la salvaguardia dei reali valori fondanti dell'Occidente sembra, piuttosto, per lo studioso comense, affidarsi alla capacità delle istituzioni che sono chiamate a rappresentarli e della società intellettuale tutta di confrontarsi vicendevolmente, oltre a "considerare" altre esperienze e tradizioni culturali, in modo oculato, ma aperto e costante.

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Il cenacolo di Vittoria Colonna a Ischia: il Dialogus de viris et foeminis aetate nostra florentibus

Della rovinosa occupazione di Roma da parte dei lanzichenecchi, che destò clamore in tutta Europa, l'umanista tratta anche in un testo di una certa importanza, ovvero il Dialogus de viris et foeminis aetate nostra florentibus. Nello scritto, strutturato come erudita disputatio, secondo i canoni più classici, si indaga sulle differenze tra i due sessi. L'originale posizione sostenuta dall'autore vuole che tali differenze siano piuttosto di origine culturale che naturale, sebbene affermi che non "sono ancora maturi i tempi per cercare di sovvertire l'ordine sociale con una maggior autonomia e libertà del cosiddetto sesso debole". "Il classico tema umanistico del rapporto tra fortuna e virtù, venne sviluppato in forme parzialmente innovative. Certo il problema non è nuovo, i protagonisti si chiedono, infatti, come e in che misura gli uomini possano controllare il proprio destino, tuttavia la particolare attitudine del Giovio ne fa un testo parzialmente diverso da tutti i suoi predecessori. Innanzitutto, gli attori non sono né personaggi di fantasia né vengono chiusi in schemi preconcetti; sebbene non manchino riferimenti a tipi ideali, lo scritto è il risultato della discussione fra individui emblematici che esprimono con forza le loro caratteristiche specifiche, siano esse quelle del militare, del politico o dell'intellettuale cortigiano".

L'opera diviene occasione, soprattutto, per un'appassionata e aspra riflessione sulle cause dell'occupazione straniera di Roma, definita "la sacrosanta casa di tutte le nazioni". La risposta di Giovio è netta: "...nostri istinti naturali sono docili e socievoli, ma le buone abitudini richiedono buoni esempi e buone leggi. Se i prìncipi sono corrotti, la popolazione degenererà presto. La corruzione ha causato il disastro italiano, non Dio, la Fortuna o le stelle. La folle ambizione dei nostri prìncipi ha chiamato per prima gli stranieri in Italia, scatenando la guerra e i tumulti che hanno distrutto le onorevoli abitudini del Quattrocento". Il giudizio sulle conseguenze è altrettanto chiaro: "le guerre d'Italia costituiscono un freno al progresso sociale non solo della penisola, ma della cristianità intera". All'occupazione dell'Urbe, Giovio imputa inoltre "la perdita del manoscritto dei libri V-X delle (sue) Historiae relativi agli anni 1498-1513 (ma su questa perdita, così ostentatamente 'livianà, contraddetta da altre dichiarazioni dell'autore, già i contemporanei dubitavano, mentre i libri XIX-XXIV, relativi agli anni 1517-27 non furono mai scritti)".

Giovio lascerà Roma alla volta di Ischia, ov'era ospite della poetessa Vittoria Colonna e di Costanza d'Avalos, zia del marchese del Vasto. Nel castello aragonese di Ischia, di proprietà degli Avalos, si creò, a partire dagli anni venti, un cenacolo artistico di notevole rilevanza attorno alla figura di Vittoria Colonna; la nobildonna era vedova, dal 1525 del marchese di Pescara, Francesco Ferdinando d'Avalos, uno dei comandanti dell'esercito imperiale in Italia.

Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera

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