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Vincenzo Monti
(✶1754   †1828)

Il modello della Bassvilliana, scritta in terzine e in terza rima, è certamente dantesco, ma non manca l'influenza, a livello schematico, della Messiade di Klopstock, che in quegli anni aveva anche pensato di tradurre dal francese (essendo privo di conoscenze del tedesco). Nel nostro «lungo e sproporzionato poema», un angelo preleva a Roma l'anima del Bassville appena spirato e la porta in terra di Francia, mostrandole i disastri causati dalla Rivoluzione, e provocandone un pianto dirotto alla vista dell'uccisione di Luigi XVI. Monti tuttavia si fermò al quarto Canto, e passò alla composizione di un'opera più incline ai suoi favoleggiamenti mitici, La Musogonia (1793-1797, in ottave), lasciata anch'essa a metà e foriera di spunti per le opere non lontane di Manzoni (Urania) e Foscolo (Le Grazie).

Indicativa è la chiusa del poema, modificata più volte, indirizzata prima a Francesco II d'Austria e poi a Napoleone, cui si chiede di intercedere per l'Italia. Monti non ebbe mai tentennamenti nel proprio attaccamento alla patria, anche se si volse a diversi "protettori" a seconda dei momenti storici.

Già in odore di simpatie rivoluzionarie, cercò di trovare pace nel completamento di un'ode già iniziata nel 1792, Invito di un solitario ad un cittadino, chiaramente debitrice della commedia shakespeariana Come vi piace. Questo componimento montiano segue lo schema dell'ode saffica, variandone leggermente le caratteristiche; manca infatti la cesura di quinta negli endecasillabi, mentre il verso conclusivo delle strofe è un settenario e non un quinario. Nell'ode un imprecisato abitatore delle campagne invita un altrettanto anonimo cittadino a fuggire dalle preoccupazioni della corte e dei suoi intrighi, per rifugiarsi in un mondo bucolico dove regna la pace e dove i soli timori sono quelli causati dal cambiamento delle stagioni. In questa ricerca di pace, forse, è ravvisabile il vero Monti.

Inizialmente quindi su posizioni contrarie alla rivoluzione francese, che trovarono spazio anche ne La Feroniade e ne La Musogonia (nello stesso Invito Napoleone è avvertito come minaccia), Monti diede tuttavia presto spazio nuovamente allo spirito che spesso lo contraddistinse: appoggiare il più forte per salvare la pelle. Gli sconvolgimenti politici e l'ormai evidente affermazione di Napoleone lo portarono a schierarsi dalla sua parte e ad accogliere nella sua casa romana il maresciallo Marmont, che era giunto nell'Urbe per ratificare i patti di Tolentino con cui si umiliava la figura del pontefice. Scrisse anche in questo periodo un sonetto anonimo, Contro la Chiesa dei Papi, in cui preconizza la giusta punizione per una Istituzione che si era allontanata dal proprio spirito originario.

Il Monti, che pure nel frattempo continuava a tenere il piede in due staffe (era ancora stipendiato dalla corte del Papa e cercava di mantenerne i favori fino alla fine), si vide costretto ad abbandonare Roma, dove troppi ormai sarebbero stati i rischi. Fu così che nella notte del 3 marzo 1797 fuggì nella carrozza di Marmont alla volta di Firenze.

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Il periodo milanese

L'ardore giacobino: Il Prometeo
Dopo un breve soggiorno fiorentino, dove fu bene accolto e recitò con gran clamore il primo canto del Prometeo nel salotto della marchesa Venturi, e dopo essere passato per Bologna (dove conobbe Foscolo, con cui fu legato da profonda amicizia, e dove lo raggiunsero la moglie e la figlia) e Venezia, il 18 luglio 1797, solo pochi giorni dopo la proclamazione della costituzione della Repubblica Cisalpina, egli giunse a Milano. Il momento è opportuno per un voltafaccia: in modo da cancellare il ricordo della Bassvilliana scrisse tre poemetti in terzine dantesche per rinnegarla (Il Fanatismo, La Superstizione e Il Pericolo, dove divinizza Napoleone ma ancor più si scaglia contro i suoi antichi protettori) e soprattutto il Prometeo, dedicato a Napoleone e rimasto incompiuto all'inizio del quarto canto. Queste opere sono strettamente contemporanee alla lettera inviata da Bologna il 18 giugno 1797 a Francesco Saverio Salfi, in cui Monti cercava di giustificare le proprie scelte passate dicendo di non aver avuto libertà d'opinione. L'autoumiliazione arrivò fino a definire la propria Bassvilliana "miserabile rapsodia".

Il Prometeo fu il primo testo di un grande ciclo di opere volte a celebrare l'epopea napoleonica, quasi quindi un'introduzione della medesima. Si tratta forse dell'opera montiana più famosa, e il Còrso vi viene esaltato anche oltre i consueti eccessi del poeta romagnolo. Il personaggio del mito viene paragonato, nella dedica, al Bonaparte; come quello si ribellò a Giove e portò il fuoco agli uomini, così questi si rivoltò contro i potenti della terra per dispensare libertà. Si immagina, nel testo, che Prometeo, accompagnato dal fratello Epimeteo, vada tra i popoli profetizzando la venuta di Napoleone, e scenda fin nell'Erebo ad annunciare la notizia.

La consueta felicità artistica non si coniuga, in quest'opera, come nelle altre, con una coerenza strutturale, e soprattutto il protagonista pare inconsistente e privato della drammaticità che ci aveva restituito Eschilo.

L'arrivo del Bonaparte è visto da Monti in questa fase come unica speranza perché l'Italia trovi coesione interna e libertà. Napoleone diviene pari a un Dio dell'Antichità, senza rivali degni in terra. Così anche senza pietà il Monti trasforma gli elogi di cui aveva ricoperto il Papa e il re in altrettanto forti vituperi (rispettivamente in un sonetto e in un inno). Elogi senza freno emergono dalla canzone Per il congresso di Udine, sempre del 1797, dove Napoleone è il "Prometeo nuovo", ancora una volta. Persino l'onta di Campoformio, che tanto indignò Foscolo, lo porta, in una canzonetta metastasiana dal titolo La pace di Campoformio, a scusare il tradimento in quanto, almeno, è giunta la pace.

Il 21 gennaio 1799 avvenne la prima assoluta al Teatro alla Scala di Milano del suo Inno per l'anniversario della caduta di Luigi XVI con la musica di Ambrogio Minoja.

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I contrasti
In questo periodo Monti subì attacchi da più parti. Il 13 febbraio 1798 Giuseppe Lattanzi, poeta romano e suo nemico giurato da tempo, sottopose al Gran Consiglio una legge secondo cui non avrebbe potuto ricoprire cariche pubbliche chi avesse pubblicato opere antirivoluzionarie dopo il settembre 1792, il che avrebbe precluso ogni carriera diplomatica all'autore della Bassvilliana. La legge fu approvata, ma per fortuna del Monti rimase lettera morta, e questi poté quindi diventare addetto alla Segreteria del Direttorio al dipartimento dell'Estero e dell'Interno della Cisalpina. Siccome le invettive contro Monti continuavano, intervenne nella diatriba Foscolo, con uno scritto in sua difesa. Anche per opera dell'Appiani e di altri, la contesa si sedò infine nel giro di qualche mese.

Per tutta la vita il carattere di Monti fu assai bilioso, ed egli si impegnò in innumerevoli contese letterarie, salvo spesso riconciliarsi con i suoi avversari, secondo il suo ormai ben noto carattere, e secondo l'autodefinizione di Irasci celerem, tamen ut placabilis essem, contenuta nella Proposta descritta più sotto.

Tra tutti, il bersaglio preferito fu Francesco Gianni, ma non si dimentichino Saverio Bettinelli e altri il cui nome resiste oggi solo grazie a queste beghe di basso livello. Sarebbe stato assai più saggio, disse Pietro Giordani, tacere, lasciando così cadere nell'oblio avversari che tentavano solo di godere di una fama altrimenti impossibile. Ma Monti era "un idrofobo - bofonchiava, il 7 agosto 1816, un Angelo Anelli da Desenzano - bisogna compiangerlo, stargli lontano, e quando si accosta per mordere, difendersi, per non essere offesi, a spada tratta", e più di tutti lo stroncò Vincenzo Cuoco, che lo definì, nel suo Platone in Italia, fomentatore di odio.

Anche il rapporto con Foscolo andò deteriorando, a partire dal momento in cui questi criticò aspramente la Palingenesi politica (vedere sotto) nelle lettere a Isabella Teotochi Albrizzi. L'anno successivo, nel 1810, litigarono per futili motivi in casa del ministro Antonio Veneri, e anche dall'Inghilterra il poeta zacintio si fece sentire, collaborando a un Essay di John Cam Hobhouse, dove il Monti è condannato come adulatore spudorato e senza principi.

La fuga in Francia
Tornati gli austriaci a Milano nel corso della campagna d'Egitto, si aprì la serie delle vendette contro i promotori della Rivoluzione. Coloro che non furono deportati scapparono. Fra questi era Monti, che intraprese un'avventurosa fuga, con pochi denari in tasca, attraverso il Piemonte per giungere a Chambéry, dove condivise le ultime cinque lire con un povero, dimostrando sostanziale bontà d'animo. Qui lo raggiunsero la moglie e la figlia, e insieme arrivarono a Parigi. Nella capitale francese il poeta soffrì per l'oblio nel quale era caduto, e rimpianse la patria lontana. Rese l'esilio meno duro l'amicizia con alcuni valenti uomini di cultura.

Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera

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