Dare il mattone a uno
Non vorremmo essere tacciati di presunzione se asseriamo — senza ombra di dubbio — che questo modo di dire è totalmente sconosciuto anche alle persone così dette acculturate.
La locuzione, intanto, si adopera (chi la conosce) quando si vuole mettere in evidenza il fatto che una persona è stata costretta a fare una cosa che non voleva fare e, quindi, è stata sopraffatta, vinta da altre persone psicologicamente più forti.
Donde viene questo modo di dire? Dal gergo dei sarti. Giovanni Maria Cecchi, commediografo fiorentino del secolo XVI, dà, infatti, questa spiegazione: «I sartori quando hanno cucito un rimedio o un ribattuto, perché non si vegga, o venga bene spianato, tolgono una pietra morta che chiamano il mattone, e lo fanno rovente al fuoco: mettendoci poi sopra una pezzolina, e con una spugna immollano; mettendoci poi sopra il panno che vogliono spianare, con un istrumento di legno… largo dalla testa e stretto nel mezzo, che chiamano il bonzo, pigiano e stropicciano forte finché tal costura si spiani. Questo modo di fare si chiama “dare il mattone”. Onde per similitudine quando uno ha fatto fare a un altro o condottolo a cosa che non doveva, si dice tu gli hai dato il mattone».
L’espressione è stata estesa anche al significato di vincere uno in modo furbesco. Il Lasca ci dà un bellissimo esempio del modo di dire nelle Rime, allorché parla del Rovajo (un vento di tramontana, ndr): «Questa è la tua stagione, / o famoso Rovajo: / Furon tuoi sempre Dicembre e Gennaio, / Non di libeccio e di Marin poltrone, / E stai sotto al macchione; / Poi questa state ci darai il mattone, / Come spesso far suoi».
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