Se Berta filasse ancora...
Amici e gentili lettori, voi che siete amatori della lingua e ci seguite con affetto (speriamo), ormai da molti mesi, siete i soli, forse, a rimpiangere il tempo che Berta filava; vale a dire i tempi in cui si dava l’importanza dovuta al parlare e allo scrivere correttamente.
Oggi, nel degrado generale in cui viviamo anche la lingua ha subito un totale decadimento, anzi molti fanno a gara (per non essere tacciati di arretratezza linguistica) nell’usare parole improprie che non hanno nulla che vedere con la lingua intesa nella sua accezione più alta; ed ecco, allora, che in molti rimpiangiamo il tempo che Berta filava.
Vogliamo vedere la nascita di questa locuzione che noi abbiamo un po’ storpiato perché la dizione esatta è non è più il tempo che Berta filava? La nascita, come sempre in questi casi, presenta molte incertezze: da ricerche faticosamente effettuate ci risultano due storie entrambe attendibili; citeremo quella che, a nostro avviso, riteniamo più aderente alla realtà.
Una contadina di Montagnana, certa Berta, essendo in possesso di un sottilissimo filo pensò di portarlo al mercato di Padova per venderlo; non sapendo, però, che prezzo chiedere per un filo che riteneva di un’utilità straordinaria pensò di regalarlo alla moglie di Enrico IV che temporaneamente si trovava in quella città. Così fece. L’imperatrice, colpita dalla bontà d’animo di quell’umile donna e volendo corrispondere con altrettanto slancio d’amore, ordinò che a Berta e ai suoi discendenti fosse dato in dono tanto terreno quanto fosse la lunghezza del filo.
Le altre donne, venute a conoscenza di questo straordinario fatto, cominciarono anch’esse a filare per farne poi dono all’imperatrice e ottenere, in cambio, tanta ricchezza. La sovrana – informata – rispose che apprezzava il loro affetto e la loro devozione, ma che solo Berta, però, occupava un posto nel suo cuore. Da questo fatto nacque, appunto, il modo di dire non sono più i tempi (o non è più il tempo) che Berta filava usato per indicare la disparità della condizione del tempo in cui viviamo. Ma sta anche significare il fatto che i tempi sono cambiati e con questi cambiano anche gli usi e i costumi (in negativo o in positivo); a nostro modesto avviso, però, i tempi non possono cambiare la lingua in toto: i cardini grammaticali sui quali poggia sono sempre gli stessi.
Per questo motivo non capiamo come mai alcuni vocabolari riportino il plurale di valigia e denuncia ora con la i, ora senza: valigie, valige; denuncie, denunce. Ci sono delle regole alle quali attenersi e che il tempo non può cambiare.
Una di queste stabilisce che il plurale dei sostantivi femminili terminanti in –cia e –gia, con la i tonica (vocale sulla quale cade l’accento), mantengono tale vocale nel plurale: farmacia, farmacie; bugia, bugie. Conservano altresì la i nel plurale le parole le cui desinenze –cia e –gia sono precedute da vocale: valigia, valigie; fiducia, fiducie; ciliegia, ciliegie.
Perdono la i, invece, i sostantivi femminili in –cia e –gia quando le consonanti c e g sono precedute da un’altra consonante: lancia, lance; denuncia, denunce; frangia, frange. La medesima regola si applicherà, ovviamente, alle parole la cui terminazione è –scia: coscia, cosce; striscia, strisce.
Come si vede, cortesi amici, sono regole molto semplici da ricordare e applicare. Come mai alcuni scrittori e le così dette grandi firme del giornalismo non le applicano? Forse non le conoscono? O per costoro sono finiti i tempi che Berta filava anche per la nostra lingua? Se è così c’è da rabbrividire.
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