Romanzo a puntate
I giornali (quotidiani e periodici) ma soprattutto le televisioni ci bombardano quotidianamente con romanzi che, data la loro lunghezza, non possono essere ridotti di molto senza alterarne il contenuto; di conseguenza si protraggono nel tempo e vengono proposti agli appassionati a puntate.
A questo proposito avete mai pensato, cortesi lettori, perché questo modo di diluire nel tempo il contenuto di un romanzo si chiama puntata? Abbiamo svolto una piccola inchiesta tra i nostri conoscenti e nessuno, ahinoi, è stato in grado di rispondere. Un ragazzo ha azzardato una risposta a dir poco umoristica: la puntata serve a puntare l’attenzione sul prossimo episodio...
Apriamo, allora, un vocabolario alla voce o lemma puntata e leggiamo: «parte di un’opera di carattere saggistico, artistico e simili che si pubblica isolata dalle altre in fascicolo o su un numero di giornale o rivista cui appariranno successivamente le restanti parti». Bene. La nostra curiosità, però, non è stata appagata completamente; dobbiamo sapere, ancora, perché si chiama puntata.
Questo termine ci è giunto dal linguaggio dei rilegatori di libri: la puntata era, infatti, il numero massimo di fogli che il rilegatore poteva fermare con un unico punto. Per estensione si è dato, quindi, il nome di puntata a tutte le pubblicazioni di carattere periodico concernente un unico argomento (e con l’avvento della televisione lo stesso nome è stato dato agli sceneggiati che si protraggono nel tempo). Ma non è finita.
La puntata, intesa come fermata è anche – come si dice comunemente – una breve escursione, una breve sosta in un luogo: «Fece una puntata a Roma e poi tornò con tutta la famiglia a Cagliari».
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