Parliamo e scriviamo italiano?
Scartabellando tra le nostre cose ci è capitato sotto gli occhi il Giornale di qualche anno fa in cui un titolo ha richiamato la nostra attenzione: «Scrivete straniero e sarete puniti».
L’articolista era Luciano Satta che in quel quotidiano era il titolare di un’interessantissima rubrica di lingua: «Non usate parole straniere perché le sbagliate o ve le sbagliano» (si riferiva, forse, alla scomparsa figura del correttore di bozze? NdR). «E quando le sbagliate la brutta figura è tutta vostra». Seguiva un elenco di vari incidenti nei quali sono incorsi, ultimamente, scrittori e giornalisti di grido: errori di traduzioni, lettere saltate, accenti errati e arbitrii sintattico-grammaticali. Mai parole furono più sante e attuali.
Oggi, con la rivoluzione tecnologica avvenuta nei giornali (ma non solo), i pezzi non vengono più composti (scritti) dai tipografi e inviati in correzione al vaglio di personale altamente qualificato (correttore di bozze); oggi gli articoli vengono composti al videoterminale dai giornalisti che sono gli unici responsabili degli eventuali strafalcioni; prima, con la composizione a piombo, l’ignoranza grammaticale del redattore era imputata all’ignoranza del correttore di bozze. Il progresso tecnologico sta mettendo a nudo molte verità nascoste. Ma torniamo ai barbarismi di cui trabocca la carta stampata e no.
Personalmente, e a costo di sembrare codini (reazionari), siamo per un reciso no alle parole straniere, non tanto per la brutta figura (di cui si preoccupa, bontà sua Luciano Satta), quanto e soprattutto perché il barbarismo che imperversa sulla stampa ha fatto dimenticare agli articolisti (e ai lettori, loro malgrado) il buon uso della lingua madre.
Una riprova lampante di quanto affermiamo è un titolo di un quotidiano locale (che non menzioniamo per carità di patria): «Tra pentiti e non». Quel non, maledettamente errato, balza evidente agli occhi del lettore accorto.
Gli avverbi di negazione no e non hanno usi nettamente distinti. Il primo (no) appartiene alla schiera delle così dette parole olofrastiche, dal greco ὁλος ("hòlos", intero) e φράζω ("phrazo", dichiaro), che, riassumendo in sé un’intera frase, debbono essere sempre isolate e in posizione accentata (non debbono essere seguite, cioè, da un’altra parola): vieni o no? È evidente, da questo esempio, il fatto che il no è olofrastico, sottintende e riassume o non vieni.
Il secondo avverbio (non) non si può trovare mai in posizione accentata (cioè da solo), si usa sempre come proclitico, vale a dire unito a una parola che necessariamente lo deve seguire: vieni o non vieni? Il titolo incriminato, per tanto, avrebbe dovuto recitare - in forma corretta - «Tra pentiti e no».
Moltissime penne sono convinte del fatto che l’uso di termini stranieri dia un tono ai loro scritti e li adoperano indiscriminatamente (a volte senza conoscerne il significato); assistiamo, così, a spettacoli linguistici orrendi. Tanto per cominciare, gentili amici, lo stranierese resta sempre singolare.
Abbiamo letto, in una cronaca sportiva, che «la squadra azzurra aveva molte chanches». Satta ha ragione da vendere, questo titolo è doppiamente errato: la grafia e la forma plurale del vocabolo barbaro. I critici cinematografici e televisivi amano scrivere ciack o ciak in luogo della forma corretta italiana ciac. Gli economisti scrivono crack per indicare un fallimento, un crollo bancario, invece dell’italianissimo crac.
Questi ultimi sbagliano doppiamente volendo adoperare un termine straniero al posto di quello italiano che fa tanto... volgare. La voce, infatti, non è inglese - come comunemente si crede - ma tedesca: Krach. Se non si vuole adoperare l’italiano crac si usi, almeno, il termine straniero corretto che è Krach, appunto. Questa voce si è diffusa in tutte le lingue europee - quindi anche in quella inglese - in seguito al crollo bancario avvenuto a Vienna il 9 maggio 1873.
Potremmo continuare ancora, ma non vogliamo tediarvi oltre misura.
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