Andare a manetta
Come tutti i padri moderni, il ragionier Berretti non perse tempo e appena il suo rampollo compì il diciottesimo anno d’età gli regalò una fiammante auto sportiva con tanto di... manette, raccomandandogli di essere molto prudente durante la guida. «Vedi figliolo — esordì il padre — moltissimi miei colleghi hanno abituato i loro ragazzi ad andare in auto in manette, così, sostengono, i loro figli non possono sbizzarrirsi molto nella guida ed essi si sentono molto più tranquilli. Usale anche tu, Fabrizio, farai contenta tua madre».
Il giovanotto non riuscì a celare una certa meraviglia: non riusciva a capire come potessero guidare — i suoi coetanei — l’automobile ammanettati. Non voleva, però, contraddire il genitore che era sicuro di avere risolto il problema della velocità, croce di tante famiglie, con le manette, appunto. Poi ebbe una felice intuizione e, rivolto al padre, disse: «Papà, non vorrei che avessi capito male, probabilmente i tuoi colleghi ti hanno detto che i loro figli — sciagurati — vanno sempre ‘a manetta’, cioè, come si dice in gergo, ‘a tavoletta’, ossia ad altissima velocità».
Fabrizio non conosceva quest’espressione — andare a manetta — ma aveva intuito, appunto, il significato: correre, andare sempre di fretta e, per estensione, fare qualcosa con grande foga, oltre, naturalmente andare a manetta.
La manetta, infatti, è quella del gas che un tempo — in alcuni veicoli — comandava l’afflusso del carburante: più si apriva la manetta, più affluiva il carburante, incidendo, naturalmente, sulla velocità del mezzo di trasporto.
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