Alfine e al fine
Alcune osservazioni orto-sintattico-grammaticali ignorate o quasi dai testi di lingua italiana.
L'avverbio alfine si scrive in grafia univerbata (tutta una parola) quando sta per infine, finalmente e simili: il tanto sospirato giorno alfine arrivò; in grafia rigorosamente scissa allorché vale allo scopo di...: i gentili clienti sono pregati di rispettare il proprio turno al fine di evitare un cortese rifiuto.
Prendere atto
Questa locuzione verbale si costruisce con la preposizione di, non con la congiunzione che. Si prende atto di qualcosa: prendo atto della tua buona fede.
Quando — per motivi fono-sintattico-grammaticali — non è possibile adoperare la preposizione di si ricorre all'espressione prendere atto del fatto che: prendo atto del fatto che hai sbagliato (non prendo atto che hai sbagliato).
Lo stesso discorso per quanto attiene all'espressione dare atto. Per onestà dobbiamo dire, però, che i così detti linguisti d'assalto ci smentiscono. Ma tant'è.
Prendere il proprio trentuno (e andar via)
Gli amici toscani conosceranno il modo di dire suddetto, per la verità non molto fine e particolarmente adoperato, appunto, in quella regione.
La locuzione, dunque, si riferisce a colui che, avendo capito di non essere gradito, abbandona un luogo senza tante cerimonie né saluti.
L'espressione, molto colorita, ha una duplice origine. Alcuni autori la fanno derivare dal trentuno inteso come ultimo giorno del mese: avrebbe, così, il senso di prendere la paga e dimissionarsi.
Per altri, invece, il modo di dire deriverebbe — e secondo noi è la versione più veritiera — dall'antico termine francese "trentain" con il quale si indicava uno speciale tessuto — molto fitto — adoperato per farne abiti da sera.
La persona non gradita, quindi, prende il trentuno (potremmo dire il soprabito) e se ne va senza salutare.
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