L'avverbio presentativo
Non crediamo di discostarci dalla verità se affermiamo che quasi nessun amico, che segue assiduamente questa rubrica, ha sentito parlare dell'avverbio presentativo, anche se tutti lo adoperiamo inconsciamente, e il motivo è semplice: come abbiamo sempre sostenuto e denunciato molti sacri testi ignorano completamente il gergo linguistico.
Chi scrive non è di questo parere: gli amanti della lingua devono essere in grado di districarsi nei vari meandri del nostro idioma, e l'avverbio presentativo è uno di questi. Vediamo, intanto, sia pure per sommi capi, cos'è l'avverbio.
Come si può leggere in qualsivoglia libro di grammatica l'avverbio (dal latino ad verbum) è quella parte invariabile del discorso che serve a modificare, graduare, specificare, determinare il significato di una frase ed è collocato, generalmente, vicino al verbo (ad verbum, appunto) tanto è vero che secondo la teoria grammaticale dell'antichità la funzione primaria dell'avverbio sarebbe quella di completare e specificare il significato del verbo a cui si accompagna. Sarebbe, perché non sempre è così.
Questo, infatti, può riferirsi a un verbo (non potevi far meglio); a un sostantivo (questo abito è molto anni Venti); a un aggettivo (il tuo volto ha un'espressione quasi diabolica); a un'intera frase o proposizione (sinceramente tutti credevamo di potere intervenire nel dibattito). A seconda della loro funzione gli avverbi si dividono in: qualificativi, modali, temporali ecc.
Riteniamo superfluo fare qualche esempio in proposito. Chi non sa, infatti, che ieri e oggi sono avverbi di tempo? In questa sede ci preme parlare — come dicevamo all'inizio di queste noterelle — dell'avverbio presentativo, che è uno solo: ecco.
Questo avverbio si adopera, infatti, per mostrare, indicare, annunciare, presentare (donde il nome) un determinato evento con un notevole rilievo enfatico: eccolo! Ha la caratteristica di collegarsi con i pronomi atoni mi, ti, ci, vi, lo e la; concorre alla formazione del così detto dativo etico.
Affine al complemento di termine, questo dativo esprime solo in senso figurato la persona sulla quale termina l'azione ed è rappresentato, generalmente, da un pronome atono: che mi fai?, vale a dire cosa mai fai? Ma vediamo — questo lo scopo della nostra fatica — alcuni usi corretti del su detto avverbio:
a) preceduto dalla congiunzione copulativa sottolinea la subitanea apparizione di un personaggio e un avvenimento inaspettato: «Ed "ecco", quasi al cominciar de l'erta, / una lonza leggera...» (Dante);
b) per rispondere, con funzione olofrastica, a un richiamo, a una esortazione: «Allora, ti decidi o no a parlare? — Ecco, ecco (sì, sì, parlo subito)»
c) per mettere in evidenza un dato di fatto, molto spesso con intenzione ironica o polemica: «Ecco, con il tuo modo di fare, il risultato che hai ottenuto!»;
d) per introdurre o concludere, riassumendo, una spiegazione: «Sai cosa facciamo ora? — Cosa? — Ecco: ti spiego come funziona questo apparecchio»;
e) in posizione iniziale (ecco) regge — molto frequentemente — una proposizione introdotta dalla congiunzione che: «Ecco che ci ha seguiti anche il cane»;
f) accompagnato da un participio passato presenta il compimento di un'azione, tipo ecco fatto
Moltissimi, inoltre, gli usi fraseologici. Ecco i più frequenti:
a) per manifestare una certa esitazione: «Io... ecco vorrei conferire se fosse possibile con il direttore»;
b) per rafforzare un'affermazione: «È questo, ecco, ciò che non sopporto del tuo carattere».
Per concludere ci sembra interessante ricordare che l'avverbio presentativo italiano ecco non è altro che il latino eccum, che sostituì nel tardo latino d'Italia il più antico ecce: «Ecce ancilla Domini».
I misteri eleusini
«Non capirò mai per quale motivo il cav. Sisinni ogni mattina, alle 11.00 in punto, si reca al bar ma non consuma nulla; è un mistero eleusino!», confidò ai colleghi d'ufficio il rag. Bettini.
Quest'espressione — indubbiamente quasi sconosciuta — si tira in ballo allorché si desidera che alcune cose restino oscure e si ripete, in particolare, quando si ha l'impressione che di un determinato argomento non si capirà mai nulla.
Il modo di dire prende il nome dai misteri che si celebravano a Eleusi ed erano famosissimi in tutta l'antica Grecia. Gli iniziati dovevano giurare di mantenere il segreto sul loro svolgimento e nessuno è riuscito mai a sapere in cosa consistessero.
L'amorosità
«Cortesissimo dr Raso,
la disturbo ancora per un quesito prettamente linguistico. L'insegnante di lettere di mio figlio (scuola media) ha sottolineato con la fatidica matita blu il termine amorosità. In un tema mio figlio aveva scritto che trattava il suo cagnolino con estrema amorosità. Per la docente questo vocabolo non esiste: si dice amorevolezza. Ho consultato i vocabolari in mio possesso e, in effetti, non ho trovato il termine contestato. Secondo lei è proprio uno strafalcione amorosità?
La ringrazio e la saluto cordialmente
Benedetto C.
Como»
Caro amico, a mio avviso l'insegnante è stata un po' frettolosa nella correzione. Se si fosse documentata avrebbe scoperto che il sostantivo incriminato (amorosità) anche se non è nell'uso comune, per questo non è a lemma nella quasi totalità dei vocabolari, esiste ed è riportato nel GRADIT e nello Zingarelli, ma soprattutto si trova nel vocabolario degli Accademici della Crusca.

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