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Francesco Domenico Guerrazzi
(✶1804   †1873)

Dopo l'arresto mise da parte la posizione mazziniana e si fece ancora più prudente, ma sempre con l’idea di battere i moderati. Nel giugno del 1848 incontrò Vincenzo Gioberti e il suo programma, che tuttavia cercò di conciliare con le idee di Mazzini e della Costituente.

Eletto deputato nell'ottobre del 1848, fu poi ministro dell'Interno.

Il triumvirato della Toscana

Dopo la sconfitta di Custoza, la capitolazione di Milano e l’armistizio di Salasco, che segnarono il declino di Carlo Alberto di Savoia, in Toscana vi furono gravi conseguenze e un gruppo di commercianti livornesi invitò Francesco Guerrazzi, che si trovava a Firenze, a tornare a Livorno per ristabilire l’ordine. Francesco Guerrazzi aderì, ma il governo di Firenze non riconobbe la sua autorità anzi nominò governatore di Livorno F. Tarantini, che tuttavia non riuscì nemmeno ad entrare in città.

In seguito, il granduca decise di affidare il governo a Giuseppe Montanelli e a Guerrazzi, attribuendo al primo la presidenza, al secondo gli Interni (27 ottobre). All'inizio del 1849 la Toscana subì l’influenza delle vicende romane: sotto la pressione dei democratici, a Firenze si elesse un governo provvisorio formato da Guerrazzi, Montanelli e Giuseppe Mazzoni e fu soprattutto Guerrazzi che si oppose alla fusione con Roma per timore sia della reazione interna sia di quella austriaca o piemontese.

La sconfitta di Novara e l'abdicazione di Carlo Alberto resero poi sempre più difficile la situazione toscana: il 27 marzo, mentre Montanelli era invitato a Parigi in missione diplomatica, Guerrazzi assunse una specie di dittatura e la mantenne per quindici giorni durante i quali cercò di accordarsi con i moderati e con il ministero inglese a Firenze, nel tentativo di richiamare il granduca ed evitare l’invasione austriaca. La sua azione di governo apparve però incerta ed ambigua, se non contraddittoria; anche Mazzini cercò quindi di convincerlo alla proclamazione della repubblica e dell’unione della Toscana con Roma, ma Guerrazzi rimase della sua idea. Il 12 aprile 1849 scoppiò così una sommossa popolare e, quando le squadre dei livornesi su cui poggiava il suo potere a Firenze furono assalite e cacciate dalla città, il Municipio di Firenze, retto dai moderati, prese il potere in nome del granduca creando una commissione provvisiona di governo, la quale sciolse l’Assemblea convocata dal Guerrazzi che ormai sopraffatto fu nuovamente imprigionato con l’accusa di lesa maestà. Il primo processo si concluse il 1º luglio del 1853 con la condanna del Guerrazzi a quindici anni di reclusione; dopo un mese la pena gli fu convertita in esilio da scontare in Corsica.

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Durante la sua prigionia nel carcere delle Murate a Firenze, prima della decisione della pena, scrisse l’Apologia (Firenze, Le Monnier 1851) a cui fece seguire nel 1852 l’Appendice: 722 pagine di autodifesa piene di sarcasmo e di polemica contro i moderati e contro il sistema giudiziario toscano. Mentre era in attesa del processo Guerrazzi scrisse anche il romanzo Beatrice Cenci. Storia del sec. XVI (Pisa 1853) sul cui stile effettistico si sarebbe abbattuto il giudizio severo del De Sanctis. Poi arrivò la condanna convertita nell’esilio in Corsica.

L'esilio in Corsica e il ritorno in Italia

Sull’isola trovò ispirazione per nuovi scritti: L’asino. Sogno (Torino 1857); La torre di Nonza; Storia di un Moscone; Pasquale Paoli, ossia La rotta di Pontenuovo. Racconto corso del sec. XVIII (Milano 1860), dedicato a Giuseppe Garibaldi e come i precedenti, ispirato alle lotte di liberazione dei popoli. Nel 1856 fuggì dall’esilio e, dopo una sosta nell’isola di Capraia, raggiunse Genova dove restò, col permesso del Cavour, fino al 1862.

Nel 1860 fu eletto deputato del collegio di Rocca San Casciano e più volte attaccò la politica di Cavour sulla questione della cessione di Nizza e della Savoia.

Nel 1861 fu eletto deputato anche al Parlamento del Regno d'Italia.

Gli ultimi anni

Morto Cavour continuò la lotta contro i moderati e rimase deputato fino al 1870, passando dalla parte radicale a quella repubblicana.

Nell’ultimo periodo della sua vita, distaccato ormai dalla politica, il Guerrazzi mantenne intensa la sua produzione letteraria con opere come: Il buco nel muro ( 1862), L’assedio di Roma (1863-1865) e Il secolo che muore uscito tra il 1875 e il 1885. Ad un personaggio in particolare, L’Orazione del Buco nel Muro, lo scrittore attribuiva vicende, pensieri e sentimenti propri, davanti agli uomini e ai fatti di quegli anni, giudicati con scetticismo moralistico.

Visse gli ultimi anni della sua vita nella fattoria che possedeva nei pressi di Cecina, detta la Cinquantina, dove si occupava dell’educazione dei nipoti, i figli di Francesco Michele Guerrazzi. Sotto l’impulso degli ultimi avvenimenti scrisse Il secolo che muore, condanna totale della società e di tutte le attività professionali dalle quali si salvava solo l’agricoltore; il romanzo infatti si concludeva con la visione ideale di una società rurale collocata nel lontano Texas, proiezione fantastica della fattoria del Guerrazzi.

Nella sua stessa amata fattoria morì improvvisamente la sera del 23 settembre del 1873; i biografi raccontano che rimase stroncato dall’apoplessia subito dopo che gli venne riferito che a Roma era stato suonato ed applaudito l’inno austriaco. Ormai lo scrittore si sentiva già da tempo distaccato se non oltraggiato dai nuovi eventi politici e morali che stavano maturando in Italia. Fu sepolto nel Famedio antistante al Santuario di Montenero, a Livorno.

L’ultimo trentennio del XX secolo ha fatto registrare un risveglio dell’interesse storico letterario e linguistico per il romanzo guerrazziano, e in genere, per la sua prosa.

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Il pensiero politico

Il Guerrazzi non può essere considerato un pensatore politico: mancava del temperamento adatto, e lui stesso nutriva antipatia per la figura tradizionale del politico, troppo logico e privo di passioni, secondo il livornese. Il Guerrazzi infatti era animato dagli impulsi del cuore e dall’irruenza del carattere che lo portavano spesso ad assumere toni accesi. Nonostante questo però cercò sempre di attenersi alla realtà seguendo anche gli insegnamenti di Niccolò Machiavelli. Guerrazzi affermava che nella politica e soprattutto nell’azione politica occorre impegnarsi con entusiasmo e passione senza trascurare la situazione storica in cui si dovrà operare e le concrete possibilità di successo che un'azione potrà avere: In politica importa avere ragione, in ispecie nei casi ardui come sono questi. La prima cura consiste nel pigliare informazioni più che si può, confrontarle fra loro: ne basta: occorre esaminare quelle che paiono più verosimili, e, dopo istituito il rigoroso processo dei fatti, ragionarci sopra, valendoci dell’esperienza, dei consigli della storia e della divinazione dello ingegno.

Secondo la sua ideologia occorre diligentissimamente esaminare con diacciata pacatezza quanto poi dovrà eseguirsi con entusiasmo. Grazie alle sue dirette azioni di agitatore cercò quindi di mettere in pratica le sue intuizioni politiche e di carpire dai problemi della realtà politica e sociale insegnamenti che poteva così inserire nella sua concezione politica. Proprio per questa sua capacità di elaborare e mettere in pratica importanti intuizioni, e per la sua disponibilità a modificare e correggere le sue idee in base alle sue esperienze di vita si può legittimare, se pure in senso lato, parlare per il Guerrazzi, di una concezione politica, di tendenza democratica, ma che ebbe forti limiti di coerenza interna, che dettero spazio alla penetrazione di un'altra concezione politica realista, che chiameremo moderata

Il livornese riteneva che solo mediante soluzioni radicali, come le rivoluzioni, si può assistere ad una vera e profonda trasformazione della situazione politica e sociale dell’Italia per gettare nuove basi per una società più libera e più giusta: la rivoluzione non è un demone, bensì una necessità, in quanto è il metodo più rapido e sicuro che, operando la distruzione e la trasformazione del presente, implica per necessità miglioramento avvenire; soltanto chi, per viltà di animo o per egoismo di interessi privati, ha paura delle conseguenze sconvolgitrici che un moto rivoluzionario determina nella conformazione politica e nella struttura sociale di uno stato, può negare la necessità del ricorso alla lotta violenta e alla guerra civile come condizione ineliminabile di rinnovamento e di sviluppo: A mio parere, per eccesso di bontà, o per manco di arditezza unicamente si può negare il bisogno della distruzione come prodromo della creazione; e mi sembra che la esperienza avrebbe dovuto a quest'ora ammaestrare che i due metodi non possono esercitarsi contemporaneamente perché il vecchio ammazza il nuovo, o piuttosto lo perverte tramutandolo in nudrimento a prolungare la propria vita.

Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera

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