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Francesco Domenico Guerrazzi
(✶1804   †1873)

Sulla necessità di una rivoluzione, lo scrittore insiste quindi soprattutto nel Il secolo che muore, che rappresenta la testimonianza esplicita del disinganno e della delusione provati dall'autore per il modo in cui si era risolto il travaglio del Risorgimento e si era venuta organizzando la società italiana dopo l'unificazione. Il secolo che muore è il romanzo al quale il Guerrazzi lavorò fino agli ultimi mesi di vita e che può essere considerato il suo testamento politico e letterario.

Naturalmente perché la rivoluzione potesse riuscire erano necessari, secondo il Guerrazzi, l'intervento e l'apporto delle masse popolari che, con la loro forza numerica e la rabbia concepita in secoli di oppressione, erano le uniche capaci di sconvolgere le strutture politiche esistenti. Questa la principale differenza dai moderati che avevano paura del popolo e di perdere il controllo dei moti, mentre il Guerrazzi sosteneva che le agitazioni popolari non solo non dovevano essere represse, ma anzi andavano stimolate e guidate. Fu polemico infatti verso la guardia civica che, col pretesto di garantire l’ordine a favore del popolo, in realtà reprimeva ogni tentativo di insurrezione, e secondo il Guerrazzi non era altro che scudo di cartone in guerra, grandine di manette di ferro in pace, di rado difesa contro i nemici esterni, sempre arnese di tirannide dentro, almeno nella intenzione di chi l'ordina e li tiene ai suoi servizi.

Anche se condivideva l’ideologia delle masse popolari però, il Guerrazzi in realtà considerava gli strati sociali più bassi soltanto come massa di manovra contro l’oppressione straniera e le classi dominanti; nel suo programma politico infatti il popolo aveva una funzione prettamente distruttiva, non creativa, della società che sarebbe uscita dalla rivoluzione: il popolo sa e può distruggere le vecchie strutture perché come forza devastatrice è onnipotente, ma non può costruire nulla e nemmeno assicurare ordine e programma alla sua azione eversiva perché come forza ordinata non vale.

Secondo Guerrazzi è necessario, quindi, che la guida del moto rivoluzionario e il compito di ristrutturare su nuove basi la società quando essa sarà uscita dal periodo dei disordini siano presi dalla classe borghese-democratica, perché la borghesia è l'unica ad avere i mezzi e le capacità per operare in modo ordinato il rinnovamento. Tale strumentalizzazione del popolo gli venne rinfacciata da tutti i moderati, i quali temevano i rischi di un’insurrezione popolare e non vedevano di buon occhio il programma di una rivoluzione proletaria autonoma ed antiborghese.

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Il pensiero religioso

Gli scritti di Francesco Domenico Guerrazzi sono pieni di polemiche contro preti, frati, papi, e contro la Chiesa di Roma in generale. Questo suo spirito anticlericale non dispiaceva alla piccola e media borghesia del primo Ottocento.

Guerrazzi non mise però mai in dubbio la validità della religione cristiana, anzi la riteneva, se privato di interpretazioni soggettive o deformazioni, il metodo più efficace per combattere la malvagità e l’egoismo dell’uomo: Quello che so di certo si è che il Cristianesimo dirittamente inteso contiene la morte del verme che rode le presenti generazioni, l'amore storto ed esclusivo di se, e presenta una formula larghissima entro la quale gli uomini possono svolgersi per lungo spazio di tempo verso il loro miglioramento... Ma intendiamoci bene: il Cristianesimo...

Credeva quindi nella religione, e come tale si rappresentava nella figura di Orazio, sia nel Il buco nel muro che nel Il secolo che muore, e dichiarò: Io non sono miscredente, bensì odio i tristi preti e li odio perché Cristo amo davvero, e perciò contro le dottrine scientifiche materialistiche difese i valori spirituali nella convinzione che tolto all'uomo il senso della sua origine divina, persuasolo che tutto finisce in lui, la polvere avrà sentimenti di polvere. Presunzione e invereconda temerarietà è sostenere che gli uomini siano del tutto materia.

Il successo

Solitamente i manuali di storia letteraria dedicano soltanto poche righe a Francesco Domenico Guerrazzi e riprendono solo i giudizi negativi, soprattutto sul suo atteggiamento umano. Considerando il periodo storico in cui egli si trovò a scrivere, e al pubblico a cui intendeva rivolgersi coi suoi romanzi, il Guerrazzi è invece una figura per molti versi esemplare per individuare gli umori e le ansie della classe sociale di quell’epoca storica.

Nel corso dell'Ottocento i romanzi guerrazziani infatti godettero di un vasto e non interrotto successo di pubblico che fece di lui uno degli scrittori più letti del periodo. Lo testimoniano chiaramente le numerose ristampe che furono fatte dei suoi due più famosi romanzi, La battaglia di Benevento e L'assedio di Firenze: del primo furono preparate, dal 1827, data della sua pubblicazione, fino al 1920 ben 58 edizioni, con una media di più di una ogni due anni; del secondo una cinquantina di edizioni fra il 1836 e il 1916.

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Il successo clamoroso che fu travolgente nella prima metà del secolo quando i romanzi guerrazziani, e soprattutto L'assedio di Firenze, attraversarono tutta la penisola, letti da chi condivideva le ansie patriottiche dell'autore: i suoi libri venivano comprati anche ad altissimo prezzo e passati di mano in mano, data la difficoltà di riuscire a trovare qualche copia in circolazione che fosse sfuggita al controllo della polizia (bastava infatti essere scoperti con un libro del Guerrazzi in casa per essere arrestati e condannati al carcere).

Il De Sanctis scrisse che a Napoli «L'assedio di Firenze si vendeva a peso d'oro e felice chi poteva leggerlo!». Anche i giudizi della critica dell’epoca erano positivi e i suoi romanzi venivano esaltati per la passione negli ideali risorgimentali rappresentata al loro interno. Non mancavano però anche a quel tempo le critiche negative sulla narrativa guerrazziana, come la sua visione sulla società, giudicata troppo pessimistica.

Nella seconda metà dell’Ottocento però si attenuò lo straordinario successo di pubblico, in conseguenza del mutamento delle condizioni storico-sociali. Le opere del Guerrazzi persero quindi di interesse nei confronti degli uomini di cultura, anche per colpa dell’affermazione di nuove tendenze letterarie più realistiche e concrete. Infatti ormai si era arrivati nell’età del positivismo, nell’esaltazione della scienza, che ripudiava le astrattezze dell’idealismo del primo Ottocento, e che non poteva certo comprendere lo spirito romantico dello scrittore livornese. Lo stesso De Sanctis, dopo la pubblicazione di Beatrice Cenci, espresse sul Guerrazzi un giudizio rimasto famoso: «Ci sentiamo [...] tentati a crederlo fuori di cervello e fuggito dall'ospedale de' pazzi».

Uno dei pochi ammiratori di Guerrazzi fu Giosuè Carducci, che lo considerava uno dei più significati esponenti della letteratura Toscana; apprezzava molto il Buco nel Muro, dove coglieva i caratteri di un romanzo di costume, ma soprattutto era affascinato dalla personalità dello scrittore, dalla sua ostinata difesa della tradizione linguistica italiana, dalla sua formazione classicistica giovanile, dall’avversione al moderatismo, e dall’insistente necessità di un’azione politica decisa. Recensendo Il buco nel muro, Carducci scriveva che Guerrazzi «formò con l'ingegno potente molta vita intellettuale della generazione a cui egli appartiene», «ultimo superstite degli illustri toscani, che nella prima metà di questo secolo resero onore e diedero impronta propria e rilevantissima alla letteratura che oso ancora chiamare toscana». Carducci, dietro invito dello stesso Guerrazzi curò anche l’edizione dei primi due volumi dell’epistolario guerrazziano.

Gli altri intellettuali italiani della seconda metà dell’Ottocento non dimostrarono molto interesse per la produzione letteraria del Guerrazzi, troppo legata al risorgimento e difficile da recuperare in chiave positivistica, o dovuto forse alle direttive culturali della classe dominante in Italia dopo l’unificazione, con una impostazione moderata che non poteva che stroncare il successo dei romanzi del radicale Guerrazzi, che venne quindi messo da parte.

Il pubblico però continuava a leggere i romanzi del Guerrazzi, soprattutto le nuove opere che apparivano in quegli anni, quali il Pasquale Paoli del 1860, Il buco nel muro del 1862, L'assedio di Roma del 1863 e il Paolo Pelliccioni del 1864. Queste presentavano tematiche nuove ma fondamentalmente lo stesso spirito pessimistico e polemico verso la società contemporanea, che adesso stava vivendo un nuovo senso di malessere e sfiducia con l’avvento della Sinistra al potere col suo spirito anticlericale contro il Vaticano e le sue costanti ambizioni di dominio.

La fortuna guerrazziana continuò quindi per un altro decennio prima di esaurirsi quasi del tutto nei primi anni del nuovo secolo.

Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera

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