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Alessandro Manzoni
(✶1785 †1873)
Gli anni del silenzio (1827-1873)
I primi lutti familiari e il secondo matrimonio
La quiete famigliare su cui Manzoni aveva instaurato il proprio regime di vita quotidiana, basato sull'affetto che Enrichetta, la madre e i figli nutrivano per lui, si frantumò a partire dagli anni '30, allorché lo colpirono i primi lutti familiari: la prima fu quella dell'adorata moglie Enrichetta, morta il 25 dicembre 1833 di tabe mesenterica, malattia contratta a seguito delle numerose gravidanze. Il dolore di Manzoni fu tale che, quando nel 1834 cercò di scrivere Il Natale del 1833, non riuscì a completare l'opera. Dopo Enrichetta, Manzoni dovette vedere la morte dell'adorata figlia primogenta Giulia, già moglie di Massimo D'Azeglio, il 20 settembre del 1834. Gli anni successivi furono ancora costellati dalla morte di molti dei suoi cari: della figlia Cristina e della madre Giulia (1841) ed, infine, dell'amico Fauriel (1844). Il 2 gennaio 1837, grazie agli uffici della madre e dell'amico Tommaso Grossi, sposò Teresa Borri, vedova del conte Decio Stampa e madre di Stefano (1819-1907), figura cui il Manzoni fu molto legato. La nuova moglie di Manzoni, al contrario di Enrichetta, era dotata di una forte personalità e di una buona cultura letteraria. A causa del suo carattere forte e protetettore nei confronti dell'adorato marito, Teresa entrò presto in conflitto sia con l'anziana suocera, sia con lo stesso Grossi, che dovette abbandonare il palazzo di Via del Morone dove vi abitava da più di vent'anni.
Il 1848 e l'esilio a Lesa: Antonio Rosmini e la critica al romanzo
Milano, come le altre grandi città europee, non fu immune dalle rivolte che esplosero su tutto il continente europeo: durante le famose cinque giornate di Milano i patrioti riuscirono a scacciare, seppur momentaneamente, gli austriaci del feldmaresciallo Radetzky dalla città. Tra questi uomini imbevuti dell’epos risorgimentale c'era anche il figlio ventiduenne del Manzoni, Filippo, che finì incarcerato all'inizio dei combattimenti. Se il figlio combatteva sulle barricate, il padre Alessandro pubblicò quelle odi politiche (Aprile 1814 e Marzo 1821) che, per timore della rappresaglia austriaca, non aveva mai edito. Al momento del rientro di Radetzky, Manzoni, timoroso di subire delle ripercussioni per il suo sostegno "morale" alla causa risorgimentale, si rifugiò a Lesa, dove la moglie Teresa aveva una villa.
Il soggiorno di Lesa, che durerà fino al 1850, non fu un infecondo esilio: a Stresa, non molto lontano, viveva il grande filosofo e sacerdote Antonio Rosmini, conoscente del Manzoni già dal 1827. Il ritiro sul Lago Maggiore servì allo scrittore per conoscere meglio l'animo e il pensiero del Rosmini, del quale apprezzò profondamente la personalità e la pietà (oltre alle discussioni religiose, linguistiche e politiche), come si può desumere dal folto carteggio epistolare fra i due uomini.
Questi anni, dal punto di vista strettamente letterario, videro Manzoni rigettare quell'equilibrio tra vero storico e vero poetico impostato nel suo romanzo. Attratto in maniera crescente dagli studi linguistici, storici e filosofici, Manzoni sentì sempre più necessaria e urgente la ricerca della "verità oggettiva", condannando, nel saggio Del romanzo storico e, in genere, de' componimenti misti di storia e di invenzione e nel dialogo Dell'invenzione (pubblicati entrambi del 1850), la commistione tra inventio e historia.
Gli ultimi anni di Manzoni: ancora lutti e simbolo della Patria
Gli anni a venire furono assai penosi per l'ormai anziano scrittore: nel 1853 muore Tommaso Grossi; nel 1855 l'amico Rosmini; l'anno successivo la figlia Matilde, da tempo ammalata di tisi; nel 1858, lo zio Giulio Beccaria; nel 1861, la moglie Teresa, la cui salute era già stata irrimediabilmente compromessa dopo una difficoltosa gravidanza anni addietro. Questa serie di lutti fu alternata dal conferimento di onorificenze da parte del neonato Regno d'Italia, e dalle visite di illustri ospiti. Il 29 febbraio 1860, ancor prima della proclamazione ufficiale del nuovo Stato unitario, fu nominato senatore del Regno di Sardegna per meriti verso la patria. Con questo incarico votò nel 1864 a favore dello spostamento della capitale da Torino a Firenze fintanto che Roma non fosse stata liberata. Dal punto di vista intellettuale, gli ultimi anni videro Manzoni, oltre a conversare col Rosmini, a scrivere saggi storici (La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859: saggio comparativo) e linguistici intorno alla lingua italiana. Come presidente della commissione parlamentare sulla lingua, infatti, Manzoni scrisse, nel 1868, una breve relazione sulla lingua italiana (Dell'unità della lingua e dei mezzi di diffonderla) indirizzata al ministro Broglio, in cui si cerca di trovare una soluzione pratica alla diffusione del fiorentino in tutta Italia. Il 28 giugno 1872 fu nominato cittadino onorario di Roma.
La morte e il funerale
Manzoni, a parte i disturbi psichici da cui era affetto e una malattia che lo colpì nel 1858, godette sempre di ottima salute. L'anno 1873 fu però l'ultimo della sua vita: il 6 gennaio cadde sbattendo la testa su uno scalino all'uscita dalla chiesa di San Fedele di Milano, procurandosi un trauma cranico con perdita di sangue. Manzoni si accorse, già dopo qualche giorno, che le sue facoltà intellettive cominciavano lentamente a scemare, fino a cadere in uno stato catatonico negli ultimi periodi di vita. Le sofferenze furono acuite dalla morte del figlio maggiore Pier Luigi, avvenuta il 27 aprile, e quasi un mese dopo, il 22 maggio alle ore sei e quindici del pomeriggio, spirò per una meningite contratta a causa del trauma riportato nel gennaio precedente. I funerali, celebrati il 29, furono solenni, e vi parteciparono le massime autorità dello Stato. Felice Venosta ne narra i particolari descrivendo, non senza note di patetismo, lo stato d'animo in cui versava la città al momento della sua scomparsa:«Per le strade un gridio di venditori di fotografie del gran poeta, di ritratti d'ogni formato, d'ogni prezzo… Le pareti delle case erano tappezzate di avvisi portanti il nome del Manzoni […] gli uomini erano tutti nelle vie, e metà Milano, a non esagerare, volle seguire il feretro al Cimitero»
Dopo la morte
Tra elogi e critiche
L'attacco de La Civiltà Cattolica
La scomparsa di Alessandro Manzoni non suscitò unanime cordoglio: il mondo cattolico più reazionario e clericale, per esempio, non accennò alla sua morte. I gesuiti de La Civiltà Cattolica, infatti, la passarono sotto silenzio. Indignati per l'appoggio dato dal Manzoni al Risorgimento e per aver accettato la cittadinanza onoraria di Roma, i padri gesuiti attaccarono violentemente la stessa arte e qualità dell'opera manzoniana nell'articolo del 26 giugno 1873 Alessandro Manzoni e Giuseppe Puccianti. Innanzitutto, si sottolinea la pochezza della produzione letteraria del Manzoni, paragonandolo a quegli artisti effimeri che il tempo cancellerà dalla memoria: «difatti non fece, né certamente farà altra scuola, né in prosa né in poesia, che di volgari». I Promessi Sposi sono l'unico romanzo che è riuscito ad imporsi, ma è pur sempre un'opera "imitatrice" dei romanzi dello Scott; le restanti opere, eccetto per gli Inni Sacri, verranno relegate tra i cultori della materia. L'odio e la critica feroce verso il defunto scrittore sono, però, principalmente da indebitarsi al legame col movimento liberale, il quale l'ha preso come simbolo proprio per la sua partecipazione al movimento risorgimentale.
La critica letteraria su Manzoni
Le prime biografie di Manzoni furono scritte da Cesare Cantù (1885), Stefano Stampa (edita anch'essa nel 1885, in risposta a delle inesattezze del Cantù), Cristoforo Fabris, Angelo de Gubernatis (1879), mentre una parte delle lettere di Manzoni fu pubblicata da Giovanni Sforza nel 1882. La figura enigmatica dello scrittore, costantemente afflitto da sintomi depressivi e relegato in una vita appartata e isolata dagli eventi mondani, spinsero Paolo Bellezza a comporre il suo saggio Genio e follia in Alessandro Manzoni (1898), in cui si analizzano paure bizzarre dello scrittore, quali l'agorafobia, gli svenimenti continui e la paura delle pozzanghere. Manzoni non fu però solo oggetto di indagini psicoanalitiche, ma anche di vere e proprie critiche nel campo strettamente letterario: in primo luogo gli Scapigliati, che videro in Manzoni l'espressione del perbenismo borghese da loro tanto detestato; da Carducci, estimatore dell’Adelchi ma implacabile verso il romanzo; da Settembrini, autore del Dialogo tra Manzoni e Leopardi in cui l'anticlericale napoletano si burla della sua fede cattolica. Ammirazione incondizionata, invece, venne da Francesco De Sanctis, Giovanni Verga, Luigi Capuana e da Giovanni Pascoli, che gli dedicò il saggio critico Eco di una notte mitica (1896).Nel Novecento, a causa dei movimenti anticlassicisti delle avanguardie e dell'evoluzione della lingua (oltre a un edulcoramento della figura del romanziere a causa dell'insegnamento delle scuole), Manzoni subì varie critiche da parte di letterati e intellettuali: tra questi, D'Annunzio, avverso alla teoria linguistica manzoniana, il "primo" Croce e il marxista Gramsci, che accusò di paternalismo il Manzoni. La più importante apologia del Manzoni fu operata da Carlo Emilio Gadda, che pubblicò nel 1927 l’Apologia manzoniana, e nel 1960 attaccò il piano di Alberto Moravia di affossarne la proposta linguistica. Soltanto nel Secondo Novecento, grazie agli studi di Luigi Russo, Giovanni Getto, Lanfranco Caretti, Ezio Raimondi e Salvatore Silvano Nigro si è riusciti a "liberare" Manzoni dalla patina ideologica di cui era stato rivestito già all'indomani della sua morte, indagandone con occhio più libero di pregiudizi la poetica e, anche, la modernità dell'opera.
Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera
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