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Alessandro Manzoni
(✶1785 †1873)
Pensiero e poetica
Tra illuminismo e romanticismo
La parabola letteraria del Manzoni, così come per gli altri romantici italiani, non propendette verso una totale rottura con la tradizione illuminista settecentesca. Al contrario, dopo il contatto con Fauriel, Thierry e gli altri ideologues, Manzoni assorbì sì quei tratti caratteristici propri del romanticismo (attenzione verso la natura, il mondo dei "piccoli", la spontaneità emotiva), ma li filtrò con gli apporti paideutico-educativi propri della lezione del Parini, del nonno Cesare Beccaria e di Pietro Verri.La letteratura civile. Dagli esordi giacobini alla Lettera sul Romanticismo
Alle scuole dei sacerdoti somaschi e barnabiti, Manzoni ricevette, come già si è visto, una formazione classica, basata sullo studio dei grandi classici. In seguito, grazie alla formazione di circoli giacobini a Milano e alla propugnazione di ideali propri dell'illuminismo, Manzoni aderì fino agli ultimi anni del primo decennio dell'Ottocento a un illuminismo scettico nel campo della religione, in cui predominava il valore per la Libertà propugnata dagli ideali rivoluzionari. Seguendo fin dalla gioventù canoni dell'illuminismo milanese e dell'Accademia dei Trasformati, Manzoni si fece portavoce inoltre della figura dell'intellettuale impegnato civilmente, rimarcando l'aspetto etico che il letterato può assumere all'interno della comunità civile: questi, infatti, deve collaborare con il potere sulla via delle riforme per migliorare la condizione del popolo, come aveva fatto il Parini quarant'anni prima. Questo tipo di letteratura impegnata moralmente la si riscontra in una lettera inviata a Fauriel nel 1806, dove un giovanissimo Manzoni si lamenta dello stato di decadenza della società italiana, cosa per cui «gli Scrittori non possono produrre l'effetto che eglino (m'intendo i buoni) si propongono, d'erudire cioè la moltitudine, di farla invaghire del bello e dell'util, e di rendere in questo modo le cose un po' più come dovrebbero essere». Questa concezione civile e morale della letteratura, oltre alle prove poetiche delle Odi civili del 1814 e del 1821, viene ripresa a livello nella più matura Lettera sul Romanticismo inviata al marchese Cesare d'Azeglio (1823), in cui Manzoni ribadisce il valore sociale che un'opera d'arte letteraria deve avere come principale finalità:
«…mi limiterò ad esporle quello che a me sembra il principio generale a cui si possano ridurre tutti i sentimenti particolari sul positivo romantico. Il principio, di necessità tanto più indeterminato quanto più esteso, mi sembra poter esser questo: Che la poesia, e la letteratura in genere debba proporsi l'utile per iscopo, il vero per soggetto, e l'interessante per mezzo»
(A. Manzoni, Lettera al marchese Cesare d'Azeglio)
L'influenza romantica
L'elemento romantico nella produzione poetica manzoniana emerge, per la prima volta, negli Inni Sacri, dove per la prima volta l'io del poeta si eclissa a favore di un'universalità corale che eleva il suo grido di speranza e la sua fiducia a Dio. La conversione romantica, come sottolinea il critico Ezio Raimondi, nasce dalla conversione al cattolicesimo, fattore che «obbliga il Manzoni a una scelta radicale anche nei confronti della poesia», determinando un cambio di rotta rispetto al neoclassicismo dell’Urania. Oltre alla dimensione "ecclesiale" della religiosità manzoniana, non si può dimenticare l'apporto fondamentale della storiografia francese di Fauriel e degli altri ideologi, in primo luogo Thierry. Costoro propugnavano, infatti, una storia non più incentrata sui grandi della storia, quanto sugli umili, i piccoli che non scemano nell'oblio del tempo perché non oggetto d'interesse da parte dei cronisti loro coevi e che sono oggetto di violenza da parte delle decisioni dei potenti. Mentre l'Italia letteraria rimaneva ancora avviluppata, all'altezza degli anni '10 e '20, alla disputa tra romantici e classicisti, Manzoni aveva già potuto assorbire i primi grandi segni di rinnovamento nel seno dell'élite intellettuale francese, allorché grazie al Fauriel aveva potuto discorrere del Genio del Cristianesimo di Chateaubriand (1802), in cui si segnava il legame tra la religione cristiana e la dimensione artistica. In un'ultima analisi, Manzoni raccoglie dall'estetismo romantico anche quell'amore per la natura che emerge in più passi sia dei Promessi Sposi (per esempio, l’Addio ai monti del capitolo VIII), che delle altre opere minori (la descrizione del viaggio narrata dal diacono Martino in Adelchi II, scena III).
Il cattolicesimo manzoniano
La religione e il "pessimismo" esistenziale
Persa, all'inizio dell'Ottocento, la speranza di raggiungere la serenità per mezzo della ragione, la vita e la storia gli parvero romanticamente immerse in un vano, doloroso, inspiegabile disordine: bisognava trovare un fine salvifico che potesse aiutare l'uomo sia a costituire un codice etico da praticare nella vita terrena, sia a sopportare i mali del mondo in previsione della pace celeste. Il critico Alessandro Passerin d'Entrèves sottolinea l'importanza che ebbero Blaise Pascal e i grandi moralisti francesi del Seicento (Bossuet) nella formazione religiosa del Manzoni: da essi l'autore aveva attinto l'ambizione a conoscere l'animo umano e «la convinzione che il cristianesimo è l'unica spiegazione possibile della natura umana, che è stata la religione cristiana che ha rivelato l'uomo all'uomo», trovando nei loro insegnamenti quella fiducia nella religione come strumento di sopportazione dell'infelicità umana. Gino Tellini riassume in modo assai esplicativo la concezione manzoniana della religiosità:
«Non basta a Manzoni la certezza d'una grazia salvatrice che rinvia all'aldilà il premio per le sofferenze ingiustamente patite nel mondo. Avverte invece il bisogno, qui e ora, d'un oggettivo parametro di giudizio, come un appiglio di salvezza su questa terra: onde la necessità di stabilire un sistema assoluto di valori etici che valga da guida e insieme da rigoroso metro valutativo d'ogni azione umana.»
(Tellini,p. 109)
Il pessimismo di Manzoni e quello di Leopardi a confronto
La fiducia in Dio è il punto di distacco dal pessimismo propugnato da Giacomo Leopardi. Entrambi gli scrittori sono assertori della violenza che colpisce l'uomo nel corso della sua esistenza, ma la differenza verte sulla speranza ultima cui l'uomo è destinato: se per Leopardi, come esplicato nel Dialogo della natura e di un islandese, il ciclo esistenziale del mondo è destinato a risolversi in un ciclo meccanico di distruzione e morte, Manzoni riesce a non cadere in questo pessimismo "cosmico" grazie alla fiducia che pone nella Provvidenza divina.
La Provvidenza: dal Cinque maggio ai Promessi Sposi
Il concetto della Provvidenza, cioè la mano di Dio che regola la storia inducendo alla conversione i cuori degli uomini e manifestazione del Divino appresa da Bousset, si manifesta già apertamente nell'economia del Cinque maggio. Dopo aver delineato la superbia di Napoleone, Manzoni passa repentinamente alla sua caduta (un Magnificat "all'incontrario"), offrendo al lettore un animo desolato, afflitto, depresso e che riesce a vivere soltanto nelle sue Memorie, le quali però non riescono a risollevarlo. Alla fine «ma valida venne una man dal Cielo» (vv. 87-88), che salva Napoleone e lo porta a riposare nella pace del Paradiso. Benché alcuni studiosi abbiano "criticato" quest'intervento finale di Dio come una testimonianza forzata del cattolicesimo dell'autore, in realtà si tratta di rispondere anche a delle risonanze interne: alla stanca mano di Napoleone si unisce la "valida mano" di Dio, «pietosa» (v.90). Da ciò si può evincere concretamente che cosa sia la Provvida sventura: l'apparente disgrazia che può colpire la vita di una persona non è necessariamente venuta a nuocere, ma può essere il mezzo per stimolare qualcuno alla conversione (Napoleone) o alla pace dei giusti (Ermengarda). Nel caso di Napoleone, la caduta in disgrazia, il dolore e infine la morte sono il fertile terreno attraverso cui Napoleone capisce i propri errori, e può riscattarsi nell'intimo della sua Coscienza davanti a Dio. Il meccanismo è lo stesso sia nell’Adelchi, che nel romanzo. Nel primo, la morte che sopraggiunge a Ermengarda prima, e ad Adelchi poi, è una morte "liberatrice" dalle pene di questo mondo, affinché possano gustare pienamente la loro sete di pace e giustizia dopo la morte, liberandosi dal mondo loro nemico e conquistando la palma del martirio in quanto vittime. Nel Fermo e Lucia prima, e nei Promessi Sposi poi, il meccanismo è sempre lo stesso: fra Cristoforo diventa religioso e si converte dal peccato d'orgoglio dopo l'assassinio del suo rivale; Suor Gertrude espia i suoi crimini dopo aver patito le pene inflittele dal Cardinale Borromeo. Soprattutto, però, la vicinanza con l'esperienza di Napoleone consiste nella tragedia dell'Innominato: costui, dopo una vita di false glorie, sente avvicinarsi la morte, e la coscienza lo tormenta, ponendogli davanti la possibilità del giudizio di Dio sui suoi crimini. L'affanno morale, esplicato nella terribile "notte", verrà poi acquietato dalla carità cristiana di Federigo Borromeo, che fungerà quale "valida mano" di Dio in un cuore dilaniato dal male, ma che è già protratto verso la conversione.
Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera
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