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Alessandro Manzoni
(✶1785   †1873)

La questione della Provvidenza delineata da Manzoni è assai diversa, invece, da quella presentata dai suoi personaggi: nessuno di loro (se non Fra Cristoforo e il Cardinale) definisce in modo nitido come Dio operi nella storia, passando da interpretazioni perlomeno accettabili (il voto alla Madonna che Lucia compie mentre è prigioniera dell'Innominato, e la sua liberazione intravista quale segno della benevolenza divina) a quelle blasfeme di Don Abbondio (la peste è vista come una «gran scopa» provvidenziale) e di Don Gonzalo de Cordoba che, davanti all'avanzare della peste portata dai Lanzichenecchi, afferma che ci penserà la Provvidenza a risolvere tutto. Si ha quindi una pluralità di visioni, che tolgono ai Promessi Sposi l'epiteto di Epopea della Provvidenza, visto che l'autore vi accenna appena. Solo alla fine del romanzo emerge il vero volto della Provvidenza divina, scoperta che illumina la realtà dell'agire di Dio nella Storia e che spinse Parisi a "ridefinire" l'epiteto dell'opera manzoniana:

«Si potrebbe dire, in questo senso, che i Promessi Sposi sono il romanzo della fede nella Provvidenza, più che il romanzo della Provvidenza…»
(Luciano Parisi, Il tema della Provvidenza, cit., p. 100)

Manzoni e il Giansenismo
L'influenza che Degola e Tosi ebbero sulla conversione al cattolicesimo del Manzoni fu, come si è visto, innegabilmente importante: dai due prelati, Alessandro e il resto della famiglia adottarono venature gianseniste che li portarono alla severa interpretazione della religione e della morale cattoliche. Oltre alla severità che il poeta s'imponeva, il continuo riferimento alla Grazia divina suscitarono, in buona parte degli ambienti cattolici lui contemporanei, perplessità sulla sua ortodossia religiosa. Il problema fu poi riproposto dal senatore Francesco Ruffini che, ne La vita religiosa di Alessandro Manzoni, in cui si sottolina l'adesione anche "teologica", e non solo "etica", al giansenismo, conclusione cui giunsero anche Adolfo Omodeo e Arturo Carlo Jemolo. In realtà, Manzoni adottò la morale giansenista, ma rimase un cattolico ortodosso nei dogmi. Come sottolinea Giuseppe Langella, sulla questione fondamentale della Grazia «Manzoni si attiene senza riserve all'insegnamento ufficiale della Chiesa, confida nell'esortazione apostolica di Mt 7, 7-8 "patite, et dabitur vobis"… Nessuna discriminazione, dunque, nell'offerta misericordiosa della grazia. Manzoni è perentorio: l'aiuto divino non è negato a nessuno che lo chieda…». Lo stesso per Luciano Parisi, il quale rimarca la fedeltà di Manzoni alla gerarchia e agli insegnamenti della Chiesa, come quando ebbe a sapere della proclamazione del dogma dell'Infallibilità papale nel Concilio Vaticano I del 1870. Cesare Cantù riporta la riflessione di Manzoni al riguardo:

«Chi ha mai messo in dubbio che Leone X fosse infallibile nella bolla contro Lutero? Anche gli oppositori riconoscono che il papa è un vescovo come gli altri, ma con qualche cosa in più. Or questo qualche cosa in più è, e non può essere che l'infallibilità. L'applicarla a tutti gli atti e detti del papa è un'esagerazione, ed ogni esagerazione è condannata a morire, perché si stacca dalla verità della Chiesa…»
(Cantù,p. 306)
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Il Cattolicesimo liberale
Manzoni s'inserisce in una corrente del cattolicesimo ottocentesco, il cattolicesimo liberale, che predicava una più viva e attiva applicazione alla vita sociale dei princìpi evangelici di uguaglianza e carità, fino a farne lievito per una profonda trasformazione in senso liberale e democratico delle strutture politiche e sociali: erano le idee allora sostenute e diffuse in Francia da Félicité de Lamennais e Augustin Thierry, e in Italia attraverso il pensiero di Gino Capponi, Antonio Rosmini e Raffaello Lambruschini: Manzoni, difatti, non condivideva il connubio tra la sfera temporale e quella spirituale (causa della crisi di fede del 1817), tanto che votò, in qualità di senatore del Regno d'Italia nel 1861, per il trasferimento della capitale da Torino a Roma, capitale ancora dello Stato Pontificio; e accettò, nel 1872, la cittadinanza onoraria dell'appena conquistata città dei Papi.

Il teatro manzoniano

I Materiali estetici
Si è accennato, nella parte biografica, alla rivoluzione teatrale compiuta da Manzoni nell'arte teatrale. I Materiali estetici sono tra i più importanti e significativi documenti che rivelano la concezione manzionana del dramma, una sorta di taccuino di appunti su cui il poeta annotava le sue riflessioni. Il palcoscenico, secondo Manzoni, non deve veicolare passioni e forti emozioni, nell'esasperazione dell'io del protagonista, ma indurre lo spettatore a meditare sulle scene cui assiste. Per Manzoni, la «riflessione sentita» è molto più poetica. Più nello specifico, la rappresentazione deve ritrarre «l'inquietudine connaturale all'uomo finch'egli rimane su questa terra dove non può giungere al suo ultimo fine». Manzoni non condivide quindi l'opinione di Nicole e Bossuet, secondo cui le opere teatrali erano immorali. Condanna la tragédie classique raciniana, ma loda l'opera di Goethe e Schiller, e soprattutto quella del «mirabile Shakespeare», il cui «intelletto […] ha potuto tanto trascorrere per le ambagi del cuore umano, che bellezze di questa sfera diventano comuni nelle tue opere». All'«identificazione emozionale» di Racine e del teatro francese bisogna sostituire la «commozione meditata», per dirla con Gino Tellini.

Infatti, contrariamente a quanto avveniva con la tragédie classique, lo spettatore, in Manzoni, è «fuori dall'azione», secondo le parole della celebre Prefazione al Carmagnola, in cui confluirono concetti dei Materiali e dell'incompiuto saggio Della moralità delle opere tragiche (1816-1817). La vicenda e la rappresentazione devono trasmettere un messaggio cristiano, senza per questo presentare una realtà idilliaca. Al contrario, Manzoni va in cerca di personaggi, che, come Francesco Bussone (il conte di Carmagnola), si oppongano al male che domina la società umana, anche a prezzo della loro vita. L'importante è che il drammaturgo cerchi la verità e si mantenga fedele alla realtà storica. Infatti, verità e poesia coincidono, come spiegato nelle postille al Cours de littérature dramatique schlegeliano e nei Materiali estetici. «È fuor di dubbio», scrive nelle postille, «che le cose eternamente vere sono le più lodate» e che, come afferma nei Materiali, «più si va addentro a scoprire il vero nel cuore dell'uomo, più si trova poesia vera». La verità, storica e spirituale, l'indagine del cuore umano costituiscono la poesia più autentica, il «bello poetico».

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La Lettre a Monsieur Chauvet
Nella capitale francese Manzoni aveva steso la Lettre à Monsieur Chauvet, lasciandola al Fauriel prima di partire. Il carteggio con l'amico rivela come già nel mese di ottobre la querelle fosse passata in secondo piano. In una missiva del 29 gennaio 1821, Alessandro richiedeva espressamente la Lettre, pensando di farla vedere a Ermes Visconti e ad altri amici quale semplice espressione di poetica. Fauriel, tuttavia, insisteva perché il testo venisse pubblicato; nonostante alcuni tentativi di declinare la proposta, Manzoni si rassegnò ad accettare. L'operetta, debitamente modificata dall'autore, uscì a Parigi nel 1823 nella famosa edizione Bonange, assieme alle due tragedie tradotte da Fauriel, all'elogio goethiano del Carmagnola e a scritti di teoria dell'arte drammatica.

Il realismo manzoniano e il rifiuto dell’idillio

Manzoni, benché avesse aderito alla tematica romantica, non aderì alla visione fantastica tipica dei movimenti romantici d'oltralpe e britannico. La sua analisi oggettiva della realtà, in cui alla sublimità dei paesaggi lecchesi si alterna quella desolante della peste e della violenza in generale, cerca di inquadrare la vicenda su uno sfondo reale. Lo stesso discorso si può rivelare anche dal punto di vista dell'analisi psicologica dei personaggi, la cui varietà rappresenta l'intera umanità nelle sue innumerevoli sfaccettature. Il realismo narrativo e la rinuncia alla dimensione fiabesca emergono però alla fine del romanzo, allorché non c'è un lieto fine, ma una ripresa della vita quotidiana spezzata però dalle disavventure dei protagonisti: l'allontanamento da Lecco di Renzo e Lucia e la ripresa delle attività giornaliere sono il frutto della scelta, da parte dell'autore, di

«concludere la sua storia in quell'illusorio recupero di paradisi originari a cui approdavano gli schemi romanzeschi tradizionali e quelli di un genere molto diffuso nella letteratura europea tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento, l’idillio. La scrittura manzoniana nega ogni interpretazione "idillica", non vuol essere ricerca di una serena felicità nel tranquillo quadro di una fresca natura, ma verifica continua delle contraddizioni sempre in gioco nell'esistenza individuale e storica dell'uomo.»
(Ferroni,p. 58)

La Questione della lingua

Fondamentale, nella riflessione poetica manzoniana, fu la ricerca di una lingua comune (una sorta di koinè) che potesse essere veicolo di comunicazione tra gli italiani, dal momento che esistevano una quantità enorme di dialetti regionali che non facilitavano i rapporti colloquiali tra gli abitanti della penisola. Il tentativo di trovare una lingua italiana standard fu tentato inizialmente da Dante Alighieri con il suo De Vulgari Eloquentia, ma il vero dibattito sorse nel '500, quando Pietro Bembo, Baldassare Castiglione, Niccolò Machiavelli e Gian Giorgio Trissino proposero modelli linguistici scelti su basi ideologiche contrastanti: dall’imitatio di Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio proposta dal Bembo si passa alla buona lingua cortigiana del Castiglione, fino ad arrivare alla difesa del fiorentino cinquecentesco di Machiavelli e la scelta "anticlassicista" del Trissino. Il tentativo di istituzionalizzazione del modello bembiano da parte di Leonardo Salviati dell'Accademia della Crusca, e la pubblicazione del primo dizionario del 1612, impose una "guida" linguistica da seguire, ma che rimaneva pur sempre inclusa nell'ambito della ristretta cerchia dei dotti. Manzoni, sulla spinta del romanticismo e della sua necessità di instaurare un dialogo con un vasto pubblico eterogeneo, si prefisse lo scopo di trovare una lingua in cui ci fosse un lessico pregno di termini legati all'uso quotidiano e agli ambiti specifici del sapere, e ove non ci fosse una grande disparità tra la lingua parlata e quella scritta. Questo percorso, iniziato già all'indomani della pubblicazione del Fermo e Lucia, vide Manzoni passare, tra il 1822 e il 1827, dal "compromesso" della buona lingua letteraria all'avvicinamento col toscano, si concluse dopo anni di studi linguistici (in questi facilitati anche dalla presenza della governante fiorentina Emilia Luti) nel 1840 con la revisione linguistica dei Promessi Sposi sul modello del fiorentino colto, che presentava ancor più del toscano questa dimensione unitaria tra la dimensione orale e quella letteraria. Infatti, tra l'edizione del 1827 e quella del 1840 vengono eliminati tutti quei lemmi toscani municipali e distanti dall'uso del fiorentino corrente.

Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera

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