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Giosuè Carducci
(✶1835 †1907)
L'anno seguente si spostò sulle Prealpi Venete. Nelle lettere inviate da Caprile manifestava tutta la propria meraviglia per la grandezza della natura, l'incanto di fronte a montagne belle come opere d'arte. Furono giorni di letture shakespeariane, cui si affiancò un nuovo momento creativo. Finì la celebre Davanti San Guido - rimasta interrotta sin dal 1874 - assieme ad altre poesie che entrarono poi a far parte delle Rime nuove.
Frattanto le sirene del mondo, frenetico ed insensibile a tutto ciò che è studio e interiorità, dovevano ritornare alla carica. Primavera 1886: al Carducci fu nuovamente chiesto di concorrere per un seggio alla Camera dei deputati. Del tutto restio ad accettare, e lontano anni luce dal guazzabuglio della politica militante, si trovò tuttavia stavolta in una situazione diversa. Era la sua gente a cheiederglielo, erano i maremmani. Spezzarono la sua resistenza le parole contenute nella lettera che Agostino Bertani, suo grande amico, scrisse poco prima di morire, esortando la nazione a reagire di fronte a una classe dirigente corrotta e traditrice delle conquiste risorgimentali.
«Obbedisco alla voce che mi viene d'oltre la tomba, obbedisco alla voce che mi suona di riva al mio mare. E obbedisco alla voce, che mi comanda dentro, del dovere», scrisse in modo chiaro e conciso nel maggio 1886.
Tenne così qualche giorno dopo, al Teatro Nuovo di Pisa, un discorso feroce nei confronti del settimo governo Depretis. Neanche questa volta tuttavia, il Carducci fu eletto, e salvi furono così i suoi studi e i benefici che elargivano alle persone di spirito.
Un'altra sirena provò a deviare il lavoro del Nostro verso lo sproloquio e la propaganda. Il 3 luglio 1887 una legge istituiva una cattedra dantesca presso l'Università di Roma. Da più parti spinsero il Carducci a ricoprirla, ma l'obiettivo latente - quello di porre l'autore dell'Inno a Satana in una posizione da cui potesse combattere il potere del Vaticano -, era troppo "spettacolare" perché Giosuè potesse accettare. Espresse quindi il proprio rifiuto in una lettera ad Adriano Lemmi pubblicata sulla Gazzetta dell'Emilia il 23 settembre 1887. L'8 ottobre adduceva poi all'amico Chiarini altre ragioni per la scelta: il poeta si sentiva stanco e aveva bisogno di rimanere a Bologna, laddove oramai aveva trovato un ambiente che, per quanto a volte pesante, gli permetteva di gestire il proprio stile di vita nel modo migliore.
Michele Coppino, allora Ministro dell'Istruzione, pensò di porre rimedio al fallimento creando un ciclo di letture dantesche. Questa volta Carducci aderì al progetto, tenendo a Roma la prima lettura l'8 gennaio 1888 e, sporadicamente, qualche altra nei mesi successivi.
Intanto, anche la secondogenita Laura era convolata a nozze: il 20 settembre 1887 aveva infatti sposato Giulio Gnaccarini, col quale dimorò poi sempre a Bologna.
La nomina a senatore
Intanto il poeta cominciava a ordinare tutti i propri scritti con l'intento di darli alle stampe. Saranno i celebri venti volumi zanichelliani, monumentale edizione nazionale delle Opere (saranno necessari vent'anni per portare a compimento il progetto). Il primo tomo fu pubblicato il 30 gennaio 1889, il secondo e il terzo videro la luce il 10 marzo e il 15 giugno.Altri importanti avvenimenti venivano naturalmente a sovrapporsi, letterari e non: il 2 settembre Libertà, l'ultimogenita, si sposò, mentre il 31 ottobre fu la volta delle Terze Odi barbare, che al loro interno contenevano una nuova poesia in lode della regina, Il liuto e la lira. Né si dimentichi la vita politica di Giosuè; entrato nel Consiglio vent'anni prima, vi era stato sempre rieletto, ma quell'anno la votazione fu straordinaria. Il 10 novembre le elezioni comunali lo premiarono, vedendogli ricevere 7965 preferenze su 10128. I bolognesi volevano evidentemente ricambiare l'affetto del poeta, che aveva sempre respinto le sirene capitoline preferendo rimanere nella città petroniana, da cui non avrebbe ormai più saputo distaccarsi. In maggio, dopo quattordici anni abbandonò l'abitazione di strada Maggiore e si trasferì nella terza e ultima dimora felsinea, lungo le mura nel tratto tra Porta Maggiore e Porta Santo Stefano, all'altezza di via Dante, nella piazzetta oggi denominata appunto "Carducci". Vi rimase fino alla morte, in quella oggi nota come Casa Carducci, in cui si trova il museo a lui dedicato e si conservano la biblioteca e l'archivio privato dello scrittore.
Il 4 dicembre 1890 venne nominato senatore e negli anni del suo mandato sostenne la politica di Crispi, che attuava un governo di stampo conservatore. Allo statista siciliano si sentiva da qualche anno particolarmente legato, e l'onore ricevuto non poté che accrescere il vincolo. La nomina a senatore rese le visite carducciane nella città eterna ancora più frequenti. Nell'Urbe riceveva sempre ospitalità presso qualche amico; poteva trattarsi del Chiarini, da anni insegnante in un liceo capitolino, di Ugo Brilli o di Edoardo Alvisi, il bibliotecario della Casanatense, assiduamente frequentata dal Carducci.
Il Carducci era incorreggibile; anche nelle mattine in cui si recava in Senato soleva rinchiudersi in biblioteca per studiare. Durante la pausa pranzo, poi, passava qualche momento in compagnia degli amici in una trattoria di via dei Sabini o, quando aveva più tempo, in un locale «veramente incantevole, che ha di fronte il Palatino e ai tre lati le Terme di Caracalla e Monte Mario. La tavola era allora più numerosa, i discorsi più vari e meno intimi». La sera mangiava invece presso il proprio anfitrione, prima di andare alla birreria Morteo in via Nazionale, dove incontrava tra gli altri Adriano Lemmi, Felice Cavallotti, il conte Luigi Ferrari e, più raramente, Ulisse Bacci.
Nei primi giorni di febbraio del 1891 fece tappa a Roma un ex-scolaro del Carducci, Innocenzo Dell'Osso, che aveva saviamente preferito darsi al negozio dei tortellini anziché all'insegnamento delle lingue morte. Giosuè fu per l'occasione invitato, assieme a pochi intimi, presso la trattoria La torretta di Borghese, in piazza Borghese, e la serata trascorreva nell'ilarità generale, essendo il Carducci di ottimo umore. Dalla Camera giunse però a un tratto Luigi Lodi, che diede la notizia dell'imminente caduta del governo Crispi (cercando di celare la propria soddisfazione). L'ilare chiasso si trasformò in un silenzio tombale. Carducci tacciò i parlamentari italiani di vigliaccheria, poiché votavano contro l'unico italiano in grado di guidare il paese. Per il resto della serata non aprì più bocca.
Il mese di marzo lo vide protagonista, suo malgrado, di una spiacevole disavventura che ebbe molta risonanza nella cronaca dell'epoca. Fu chiesto a Francesco Crispi di fare da padrino alla bandiera del Circolo monarchico universitario, ma, siccome rifiutò, fu Carducci ad accettare l'incarico. I repubblicani non avevano ancora perdonato le simpatie monarchiche di quello che era stato il poeta dei Giambi ed Epodi, né si erano mai preoccupati di comprenderle. Più che altro, la perdita di una personalità come Carducci doveva costituire per loro un brutto colpo.
Quando un gruppo di studenti repubblicani particolarmente accesi venne a sapere dell'incarico assunto dal professore, ci fu una violenta reazione. La sera del 10 marzo qualche decina di loro si presentò sotto le finestre della nuova abitazione del poeta e cominciò ad insultarlo. Giosuè però non era in casa, e i giovani rimandarono la contestazione al giorno seguente. Circa cinquecento di essi si insediarono nell'aula universitaria aspettando l'arrivo del docente. Non appena questi fece il proprio ingresso, cominciarono a gridargli di tutto.
Carducci, imperterrito, cercava di farsi largo tra la folla per guadagnare la cattedra, scatenando con la propria indifferenza una rabbia ancor maggiore. Salito allora in piedi sulla cattedra affinché tutti lo vedessero, esclamò: «È inutile gridiate abbasso, perché la natura mi ha messo in alto. Dovreste piuttosto gridare: A morte!!».
La contestazione degenerò quindi, provocando il ferimento di alcuni ragazzi, e solo l'intervento di altri professori - tra cui Olindo Guerrini - riuscì a sottrarre il Carducci alla calca, dato che questi, imperturbabile, dichiarava che non se ne sarebbe andato prima di loro, le cui manifestazioni definì poi con disprezzo «prolungata esercitazione nelle imitazioni animalesche». Giosuè fu fatto salire in automobile, dove qualcuno tentò di aggredirlo, per fortuna senza successo. L'evento provocò una sospensione delle lezioni di due settimane e molti strascichi polemici (due giorni dopo monarchici e repubblicani vennero alle mani in pieno centro), ma Carducci, ormai avvezzo ai fanatismi e alle critiche, non vi diede, né allora né poi, grande importanza. Si recò pochi giorni dopo a Genova, dove incontrò Giuseppe Verdi, e riprese quindi le lezioni senza minimamente accennare all'accaduto.
Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera
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