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Giovan Battista Marino
(✶1569 †1625)
Essendo la morte del Marino avvenuta durante la settimana santa, non è possibile disturbare la Passione e la Pasqua con un funerale in grande stile. La salma deve dunque aspettare il 3 aprile per le esequie. Nonostante Chiaro e Bajacca sostengano che la sepoltura sia stata accompagnata da gran concorso di popolo, fonti documentarie riflettono una realtà ben diversa. L'arcivescovo di Napoli, Decio Carafa, ordina ai Teatini di non seppellire il cadavere prima del suo permesso, e, alterato al sapere che il Marino, il maledetto autore dell’Adone, è stato trattato "come un santo" dai padri, comanda che sia «seppellito di notte, colla sola parocchia», e sia «recto tramite portato alla Chiesa». Secondo Stigliani non ci sono più di quattro preti con quattro torce; ciononostante, pare non si possa impedire a un centinaio di cavalieri, a loro volta con torce accese, di accompagnare il Marino alla sepoltura. Anche per questo estremo addio così sbrigativo e a suo modo traumatico gli Oziosi gli dedicheranno esequie accademiche proprie, quelle sì sontuose, il 7 settembre 1625.
Come riflettono le reazioni dei contemporanei, da una canzone a selva di Gaspare Bonifacio al possessore delle carte del Marino recitata durante le esequie degli Umoristi, a quanto sostengono i biografi (Chiaro, in modo piuttosto sfuggente) circa le opere rimaste "guaste e imperfette" a causa della sottrazione di carte già mezze bruciate, per tutto il Seicento la dolorosa scomparsa di opere mariniane, coincidenti con quanto promesso nel corso degli anni oppure no, è una realtà degna di fede per un grande numero di letterati. Nel 1666 il dotto Lorenzo Crasso, in stampa (negli Elogii di huomini letterati) e privatamente (in una lettera ad Angelico Aprosio), sosterrà a chiare lettere di possedere, grazie ad interi in folio di opere mariniane, anche la famigerata Gerusalemme distrutta, e di averla letta integralmente. E tuttavia, non molto tempo dopo l'uscita del Crasso, un marinista di valore, ma molto nemico delle "spagnolate" del Marino, Scipione Errico vicino a morte (1670) sostiene in una lettera di attendere alla composizione di certe sue Trasformationi - sia ciò vero o non sia, piuttosto, diventato un gioco malizioso, e un po' amaro, di ammicchi tra letterati.
L'unica testimonianza vivente il Marino che opere come le Epistole amorose (a parte la Lettera di Rodomonte a Doralice) e le Trasformazioni fossero poco più che meri titoli sarebbe data da una lettera inviata ad Ottavio Tronsarelli da Napoli presumibilmente nel 1624, ma i dubbii che si tratti di un falso del Tronsarelli stesso sono in proposito pesantissimi. Il Tronsarelli è autore de La catena d'Adone, favola boschereccia (Ciotti, Venezia 1626), musicata da Domenico Mazzocchi, riesumata anche in tempi moderni e oggetto d'incisione discografica. Oltre alle vesti musicali di Salomone Rossi e di Claudio Monteverdi, tra moltissimi altri, per numerosi componimenti de La lira, sono da segnalare, durante tutto il secolo, adattamenti per il teatro musicale dall’Adone, tra cui un Adone. Tragedia musicale... rappresentata in Venezia l'anno 1639 nel teatro de' SS. Gio. e Paolo (Sarzina, Venezia 1640) di Paolo Vendramin, l’Adone, drama per musica di Gio. Matteo Giannini (Venezia 1676), l’Adone. Intermedio musicale per l'Accademia degl'Uniti (Bosio, Venezia 1690 ca.), nonché, di Rinaldo Cialli, La Falsirena drama per musica da rappresentarsi nel teatro di S. Angelo l'anno 1690 (Per il Nicolini [ma pubblicato da Tomaso Bezzi], In Venetia). A questi, notevole per la tempestività se è tratto anch'esso, come sembra, dal capolavoro del Marino, si può aggiungere il Lamento di Venere, scena penultima dell'Adone, favola da rappresentarsi cantando.
Dell'Incolto accademico degl'Immaturi, In Venetia, per il Deuchino, in calle delle Rasse, 1624; quanto all'identità dell'autore, il Maylender scrive (Immaturi di Venezia): «L'Incolto sembra esser stato Gianfrancesco Ferranti». Sicuramente una parte non trascurabile dei manoscritti mariniani sopravviveva fino ad un'eruzione del Vesuvio del 1794; ma secondo alcuni studiosi moderni, tra cui Alessandro Martini, le possibilità di sopravvivenza, e dunque di recupero, di materiali mariniani completamente inediti non è del tutto disperata. Deve comunque essere detto che, per esempio, della sontuosa biblioteca del Marino, lasciata in eredità ai Teatini, a tutt'oggi si è rinvenuto solo un volume.
Giudizi postumi
Il "caso" Marino diviene immediatamente, dalle celebrazioni accademiche romane per la sua morte in poi, un fatto ideologico, che ha come scopo, si può generalmente dire, la difesa della libertà artistica ed una visione progressiva del fare poesia e letteratura. In modo particolarmente intenso si mobilita l'Accademia degli Umoristi di Roma. Domenica 7 settembre, come già detto, dell'anno della morte del Marino gli Umoristi si raccolgono in casa del Mancini, il fondatore (principe essendone Carlo Colonna).La descrizione puntuale delle esequie, piuttosto impressionante, si trova in una lettera del Bajacca a Gaspare Bonifacio (11 settembre), e nell'opuscolo ufficiale che Flavio Fieschi, tra gli Umoristi l'Affaticato, diede alle stampe nel 1626 col titolo di Relazione della pompa funerale fatta dall'Accademia degli Umoristi di Roma per la morte del Cavaliere Giovan Battista Marino. Con l'orazione [di Girolamo Rocco] fatta in loda di lui, con dedica a Girolamo Colonna; componimenti a cui si può accostare, di Licinio Racani, Il cordoglio di Parnaso, publicato dalla fama. Idillio lugubre... in morte del caval. Gio. Battista Marino (Sarzina, Venezia 1626). Le pareti della sala dell'Accademia erano parate di cosiddetto "paonazzo", ossia erano abbrunate; chi entrava si trovava sùbito di faccia, sul fondo della sala, un elogio accompagnato ai lati da mesti dipinti, sormontati tutti dall'impresa del Marino accompagnata da un'epigrafe. Quale epigrafe non è dato precisamente sapere; secondo il Baiacca sonava, semplicemente:
«Equiti Ioanni Baptista Marino / Poetae sui seculi maximo / Cuius Musa e Parthenopeis cineribus enata / Inter lilia efflorescens / Reges habuit Moecenates / Cuius ingenium foecunditate felicissimum terrarum orbem habuit admiratorem. / Academici Humoristae principi quondam suo posuerunt ["Al cavalier Giovanni Battista Marino / massimo poeta del suo secolo / la cui musa nata dalle ceneri di Partenope / fiorendo tra i gigli / ebbe mecenati i re / il cui ingegno felicissimo per fecondità ebbe ammiratore il mondo intero. / Gli accademici Umoristi posero al loro passato principe"].»
Secondo il Fieschi, invece, più elaboratamente recitava:
«Ioanni Baptistae Marino Equiti / Viro ingenii acumine, eloquentiae suavitate, scribendi elegantia praestantissimo / Qui in poetica facultate pene ad miraculum claruit / Imitatores habuit multos, orbem terrarum laudatorem / Honoribus et opibus a regibus certatim et principibus auctus / Operum praestantia invidia facile extinxit, interitum nominis celebritate / Academici Humoristae collegae optimo, et sibi nunquam non deflendo ["A Giovan Battista Marino cavaliere / uomo eccellentissimo per acume d'ingegno, soavità d'eloquio, eleganza di stile / Che splendette quasi miracolo per dote poetica / Ebbe molti imitatori, l'intero mondo per suo fautore / Caricato d'onori e beni a gara da re e principi / L'eccellenza delle opere facilmente tacitò l'invidia, distrutta dalla celebrità del nome / Gli Umoristi all'ottimo collega e degno di perenne compianto"].»
A destra dell'elogio una grande tela di Francesco Crescenzi, fratello del cardinale, raffigurava il Cavaliere seduto e intento a scrivere; a sinistra c'era un altro ritratto, di Battista Guarini, anche lui già principe dell'accademia. Coprivano il rimanente della parete di fondo, ognuno in un angolo, due quadri dipinti a chiaroscuro, compagni di altri due e due quadri ornanti le due pareti adiacenti: le sei tele, incorniciate solamente col ramoscelli e fronde di cipresso, raffiguravano la Vigilanza e l'Invenzione, opere di Giovanni Luigi Valesio, la Poesia di Giovanni Baglione, la Fama del Cavalier d'Arpino, l'Onore del Pomarancio e la Retorica del Lanfranco. C'era poi l'impresa dell'Accademia posata sulla cattedra pure abbrunata, Redit agmine dulci, raffigurante il mare e la nube, e poi una tela raffigurante San Gregorio Magno protettore dell'accademia; infine, di faccia all'impresa, un'ipostasi femminile dell'accademia stessa, opera di Giovanni Giacomo Sementi: una donna con la spalla destra nuda e per tutto il resto del corpo avvolta in un manto color di cielo, seduta su una sorta di trono di libri, con nella sinistra, levata, una corona d'alloro e nella destra, posata in grembo, una tromba; alla sua destra la Lupa lattante Romolo e Remo, e alla sua sinistra alcune scimmie morte, simbolo di accademie emule e presto sciolte.
Presenziavano Maurizio di Savoja, Fernando Afan de Ribera y Enriquez futuro viceré di Napoli, Ruy III Gomez de Silva y Mendoza la Cuerva, duca di Pastrana, Antonio Querenghi, Giovanni Ciampoli, Giovan Battista Lauro, Vincenzo Candido (futuro Maestro del sacro palazzo), Agostino Mascardi, Alessandro Tassoni, Ridolfo Boccalini. Un'orazione funebre fu pronunciata da Girolamo Rocco, che fece una specie di biografia del poeta; Antonio Sforza seguì poi con una cicalata "Perché gli antichi ne' mortorii si tagliassero i capelli" (su cui anche Girolamo Brivio doveva parlare, ma non ce ne fu il tempo); seguirono con un sonetto Giuseppe Teodoli, il Brivio con un madrigale, e poi, con elogii, epitafii, sonetti e madrigali, Domenico Benigni, Antonio Sforza, Pier Francesco Paoli, Ferdinando Adorni, Stefano Marino, Giacomo Camola, Decio Mazzei, Giulio Cesare Valentino, Francesco Maia e altri.
Le biografie coeve
Lo sforzo più significativo degli Umoristi è però quello di salvare l'Adone dall'Indice. Il 12 novembre 1625 l'Accademia si rivolge alla Congregazione dell'Indice proponendo di correggere il poema. Sono poi cinque le biografie che, propagandando un'immagine parzialmente artefatta del caposcuola, devono servire a mantenerne intatto il prestigio; la prima esce tempestivamente nel 1625 per cura di Giovan Battista Baiacca, segretario di Desiderio Scaglia committente dell'opera; il Baiacca s'è però servito della consulenza del nipote del Marino, Francesco Chiaro, che a sua volta sta preparando una biografia dello zio, sicché il canonico si ritrova a produrre praticamente un doppione dell'operetta del Baiacca (1633).Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera
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