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Giovan Battista Marino
(✶1569   †1625)

Fortuna critica

La sua concezione di poesia, che, esasperando gli artifici del manierismo era incentrata su un uso intensivo delle metafore, delle antitesi e di tutti i giochi di rispondenze foniche, a partire da quelli paronimici, sulle descrizioni sfoggiate e sulla molle musicalità del verso, ebbe ai suoi tempi una fortuna immensa, paragonabile solo a quella del Petrarca prima di lui. Il suo metodo compositivo presupponeva una larga messe di letture "col rampino", ed era fondato in prima istanza sull'imitazione. La ricerca della novità, e l'adeguamento al gusto corrente, consisteva nel modo di porsi di fronte alla tradizione, selezionando una dorsale congeniale, non più con lo spirito enciclopedico del manierismo ma con atteggiamento collezionistico: il passato era così visto come una sorta di cantiere ingombro di detriti, che l'artefice poteva a piacimento reimpiegare per costruire qualcosa di nuovo.

Il barocco rappresentato dal Marino reagisce per altri aspetti al manierismo, peraltro, evitando le emergenze espressionistiche, l'enfasi, la cupezza che saranno invece spesso ravvisabili nella seconda fase del marinismo, che può essere fatta iniziare da una figura-spartiacque come Giuseppe Battista e che si concluderà, dopo una fioritura particolarmente ricca intorno al 1669, con l'opera dei fratelli Casaburi (specialmente Pietro), e di Giacomo Lubrano. Il Marino sicuramente si pose come caposcuola, o quantomeno offerse consapevolmente la sua produzione, sin dalla prefazione della Lira, come esempio ai giovani; ma non fu in nessun caso un teorico (può essere tralasciato un ipotetico Crivello critico , o Le esorbitanze, secondo il titolo detto allo Stigliani, contro gli eccessi dei poeti moderni, una delle tante promesse non mantenute), e anche le scarne affermazioni di poetica sono da prendere con le molle.

Sono due i luoghi più famosi in cui il Marino s'è lasciato sfuggire qualche accenno di poetica; il primo, che è quello con cui s'identifica tout court la sua maniera, è dato nel son. "Vuo' dare una mentita per la gola", il XXXIII. della Murtoleide, in cui, com'è universalmente noto, si dice:

«Vuo' dar una mentita per la gola / a qualunque uom ardisca d'affermare / che il Murtola non sa ben poetare, / e ch'ha bisogno di tornar a scuola. // E mi viene una stizza marïola / quando sento ch'alcun lo vuol biasmare; / perché nessuno fa meravigliare / come fa egli in ogni sua parola. // È del poeta il fin la meraviglia / (parlo de l'eccellente, non del goffo): / chi non sa far stupir, vada a la striglia. // Io mai non leggo il cavolo e 'l carcioffo, / che non inarchi per stupor le ciglia, / com'esser possa un uom tanto gaglioffo.»

Di là dal contesto (il riferimento al "cavolo e 'l carcioffo" è alla goffaggine con cui il Murtola, nella sua Creazione, intese celebrare la provvidenza anche attraverso le sue manifestazioni più umili e quotidiane), simili concetti all'epoca erano già frusti, e peraltro sono le stesse parole con cui lo stesso Chiabrera definiva la propria poetica (nella Vita di Gabriello Chiabrera da lui stesso descritta non mancano né la maraviglia né, quasi in posizione-rima, l’inarcar di ciglia). L'altro, più articolato e meritevole di esser preso maggiormente alla lettera, anche se il contesto rimane sempre polemico, è costituito da una lettera dell'estate 1624 a Girolamo Preti:

«Ma perché non voglio esser lapidato dai fiutastronzi e dai caccastecchi, mi basterà dire che troppo bene averò detto che le poesie d'Ovidio sono fantastiche, poiché veramente non vi fu mai poeta, né vi sarà mai, che avesse o che sia per avere maggior fantasia di lui. E utinam le mie fossero tali! Intanto i miei libri che sono fatti contro le regole si vendono dieci scudi il pezzo a chi ne può avere, e quelli che son regolati se ne stanno a scopar la polvere delle librarie. Io pretendo di saper le regole più che non sanno tutti i pedanti insieme; ma la vera regola, cor mio bello, è saper rompere le regole a tempo e luogo, accomodandosi al costume corrente ed al gusto del secolo. Iddio ci dia pur vita, ché faremo presto veder al mondo se sappiamo ancor noi osservar queste benedette regole e cacciar il naso dentro al Castelvetro. So che voi non sète della razza degli stiticuzzi, anzi non per altro ho stimato sempre mirabile il vostro ingegno, se non perché non vi è mai piacciuta la trivialità, ma senza uscir della buona strada negli universali avete seguita la traccia delle cose scelte e peregrine [...]»
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Nessuno dei procedimenti da lui impiegati era, ovviamente, nuovo, ma mai era stato utilizzato con altrettanta assolutezza. Fu largamente imitato, oltreché in Italia, anche in Francia (dove fu il beniamino dei preziosisti, come Honoré d'Urfé, Georges de Scudéry, Vincent Voiture, Jean-Louis Guez de Balzac, e dei cosiddetti libertini, come Jean Chapelain, Tristan l'Hermite, Philippe Desportes, ecc.), in Spagna (dove influì su Luis de Góngora e soprattutto Lope de Vega), in altri paesi cattolici come il Portogallo e la Polonia, ma anche in Germania, dove i suoi più diretti seguaci furono Christian Hofmann von Hofmannswaldau, Daniel Casper von Lohenstein e Barthold Heinrich Brockes, che diede la versione tedesca della Strage degl'innocenti, e nei paesi slavi. In Inghilterra La strage degli innocenti ispirò John Milton, e fu imitata da John Crashaw.

Per quanto riguarda la ricezione del Marino in Italia, significative sono le censure di Pietro Sforza Pallavicino, teorico della letteratura secondo i dettami di Urbano VIII, in Del bene (1644) e Trattato dello stile e del dialogo (II ed. definitiva 1662); e per converso il riconoscimento del Marino come sostanziale "caposcuola" da parte di Emanuele Tesauro nelle varie redazioni del suo Cannocchiale aristotelico. Il Pallavicino condanna in blocco, senza premurarsi di fare distinguo (e dunque negando la possibilità stessa di una poesia non atteggiata, "classica"), i procedimenti paronimici mariniani, considerandoli comunque viziosi, in Del bene; mentre esalta lo Stigliani "tra que' pochi che della poetica e della lingua italiana possono parlare come scienziati" (Trattato dello stile), nelle Vindicationes societatis Iesu (1649) del Marino dirà che "in numero lascivire potius videtur quam incedere", che in genere "canoris nugis auditum fallere, non succo sententiarum atque argutiarum animos pascere", e che il Marino in particolare "carebat philosophico ingenio, quod in poeta vehementer exigit Aristoteles" - e nel Trattato, riferendosi ad un luogo della Galeria, definisce il ricorso a certi bisticci come segno "di poca maestria d'imitazione", aggiungendo che sono "poco fertili di maraviglia e anche poco ingegnosi".

È interessante notare come sia nel 1639 il massimo teorico delle Acutezze, Matteo Peregrini, sia sotto Urbano VIII il Pallavicino, sia il Tesauro nelle varie redazioni del Cannocchiale (1654-1670) non abbiano dato, o anche solo tentato, una definizione univoca dell'antitesi; laddove il Pallavicino, in particolare, ne fornisce una, nel Trattato, più prossima alla paronomasia, segno che la reale sostanza della "rivoluzione" mariniana, posto che rivoluzione ci fosse, gli sfuggiva quasi totalmente. Rimasto il punto di riferimento della poetica barocca per tutto il tempo in cui fu in voga, con il XVIII e il XIX secolo, pur essendo sempre ricordato per ragioni storiche, fu indicato come la fonte o il simbolo del "malgusto" barocco.

Le critiche dello Sforza Pallavicino per certi aspetti anticipano quelle del secolo dei lumi; Ludovico Antonio Muratori gli darà sostanzialmente ragione (per quanto respinga quella qualità "filosofica" che la poesia dovrebbe avere, e per cui il Pallavicino si rifaceva viziosamente ad un passo d'Aristotele - che s'era limitato a dire che il poeta è più filosofo dello storico, non che è filosofo in sé). Più oltre si spinge Giovanni Vincenzo Gravina, che non si limita a notare la mancanza di misura e di gusto della maniera barocca, ma ne dà una spiegazione storica: la poesia barocca è la poesia dell'età della scienza, e il suo errore è stato quello di dotarsi di una sua techne e di suoi strumenti proprii, e questo, pur aprendole possibilità nuove per alcuni versi, per altro l'ha fortemente limitata.

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Gian Battista Vico, che conobbe e stimò l'"ultimo dei marinisti", Giacomo Lubrano, nella sua produzione in versi si tenne fedele ai principii di un castigato classicismo, ma diede grande importanza ai procedimenti analogici su un piano strettamente speculativo, contro l'aridità delle "griglie" nozionistiche sensiste, come strumento di indagine e palestra intellettuale (la stessa funzione che il Settembrini, invece, negherà loro). In effetti il Marino carente di "philosophico ingenio" è stato anche il primo ad applicare intensivamente procedimenti dialettici alla poesia, con eventuali ricadute sulla speculazione del suo tempo, e anche dei tempi a venire.

La critica non ha dedicato al Marino studii organici fino alla fine Ottocento. La critica romantica (salvo Luigi Settembrini) ha dato della sua opera un'interpretazione superficiale, da vulgata, identificando l'unica preoccupazione del poeta con la "maraviglia", conseguita tramite la ricercatezza dei particolari e le sfoggiate descrizioni. Francesco de Sanctis criticò pesantemente Marino, deprecandone l'esclusiva attenzione alla forma a discapito del sentimento, per quanto si riveli in grado di dare uno sguardo meno superficiale allo "studiolo" del Marino quando descrive la sua tecnica "col rampino", e identifica l'origine della sua ispirazione nel catalogismo erudito e voluttuoso.

Ma per quanto riguarda la critica romantica, più notevole è la severa, ma estesa ed intelligente lettura che nelle Lezioni di letteratura italiana (1872-1875) diede Luigi Settembrini. Immune da campanilismi (il Settembrini tace, per esempio, di Giovan Battista Basile), ripercorre il poema grande facendolo discendere direttamente dalla Liberata (in particolare dal giardino d'Armida) "come la voluttà nasce dall'amore"; antologizza diversi luoghi, e, negando recisamente un'assenza di struttura, riconosce numerosi luoghi mirabili e la sostanziale novità del Marino. Secondo la sua prospettiva storiografica - che è quella di chi deve dar conto di una storia della civiltà letteraria italiana - il Marino è in genere il sintomo di una fase di forte decadenza, caratterizzata dall'occupazione straniera e dallo strapotere della chiesa, e l’Adone, definito opera "voluttuosa", sarebbe una sorta di reazione alla crudeltà dei tempi (tesi non troppo distante da quella sostenuta a suo tempo anche da Pieri in Per Marino, 1977), e contemporaneamente loro ambigua espressione. Con questo, trascendendo la figura in sé dell'autore (comunque nobilitato da certi accostamenti: "Vedrete delirare Bruno e Marino", annuncia aprendo la trattazione del secolo "fangoso": ma questa di "delirio" non è in tutto una definizione negativa), secondo il Settembrini il marinismo è, tout court, il gesuitesimo applicato alla letteratura.

Peraltro il Settembrini rifiuta seccamente la valutazione dell'Arcadia come un movimento di restaurazione del buon gusto; e paragona il Barocco ad un pazzo furioso, il cui organismo cerca ancòra di difendersi dall'avanzata del male, mentre l'Arcadia sarebbe uno stato tranquillo, sì, ma come l'ebetudine che precede di poco la morte. Di quanto ci fu intorno al Marino rifiuta di parlare, facendo i nomi di Achillini e Preti e liquidandoli con tutti gli altri come "gesuitanti dello stile". Il primo studio approfondito sulla poetica mariniana e i suoi procedimenti è Sopra la poesia del cavalier Marino tesi di laurea di Guglielmo Felice Damiani (oltretutto finissimo conoscitore di Nonno di Panopoli) data alle stampe nel 1899, la quale seguiva La vita e le opere di Giambattista Marino di Mario Menghini (1888).

Fonte: Wikipedia, l'enciclopedia libera

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