Parole parafoniche
Con il termine parafonìa – preso in prestito dal linguaggio musicale (nel gergo musicale dei tardi teorici greci e poi di quelli del tardo Medioevo erano denominati parafonici gli intervalli di quarta e di quinta) – ci piace chiamare alcune parole... parafoniche che, come dice la stessa… parola di derivazione greca, servono a indicare vicinanza spaziale, somiglianza, affinità, ma anche alterazione o contrapposizione. Sono termini parafonici, per esempio, parastatale e paramilitare in quanto indicano un concetto di affinità, somiglianza, attinenza.
Gli impiegati parastatali – per cercare di spiegare meglio il concetto di parafonìa – hanno gli stessi doveri e diritti degli impiegati statali; lo stesso per quanto attiene ai paramilitari. Tra i termini parafonici che adoperiamo più frequentemente e inconsapevolmente ricordiamo le interiezioni primarie, soprattutto le formule di imprecazione: caratteristiche quelle di origine blasfema, alterate per motivi eufemistici attraverso sostituti parafonici (alterazione e contrapposizione) che dissimulano il nome di Dio e della Madonna: perdiana, perdinci, perdindirindina, madosca, porca mattina, porca eva, perbacco, porca vacca.
Abbiamo anche dei sostituti parafonici per mascherare esclamazioni scurrili: caspita!, caspiterina!, cacchio, cavolo, cassio. Tra i sostituti parafonici nelle interiezioni secondarie ricordiamo accidempoli, acciderba, accipicchia e la forma tronca acci…. Queste ultime forme sono nate – forse non tutti lo sanno – dall’interiezione accidenti, ellissi di frasi come ti vengano degli accidenti e simili, condannata severamente – due secoli fa – dal Tommaseo-Bellini come «interiezione volgarissima per esprimere o per affettare meraviglia».
A questo punto è necessario, forse, ricordare cosa è un’interiezione. Lo facciamo subito. Cominciamo con il dire che è un termine di derivazione latina (come buona parte dei vocaboli italiani) e che propriamente significa intersezione essendo composto di inter (tra) e iacere (gettare): che si pone (getta) in mezzo. È, quindi, una parola che si pone tra altre parole per esprimere da sola un improvviso e vivace sentimento dell’animo (paura, meraviglia, repulsione, angoscia, ansia, dolore, gioia, ecc.).
Secondo la forma le esclamazioni o le interiezioni si possono distinguere in proprie e in improprie. Le prime sono chiamate, appunto, proprie perché hanno solo la funzione di esclamazione: oh!, urrà, ahimè, ah, ecc. Le seconde, invece, sono altre parti del discorso – verbi, aggettivi, avverbi, sostantivi – adoperate in funzione di interiezione: bravo!, coraggio!, giusto!, zitto!, presto!, viva! fuori!, ecc.
Per concludere queste modeste noterelle potremmo definire interiezioni parafoniche le voci onomatopeiche, vale a dire le espressioni in grado di riprodurre o imitare con il gioco delle loro consonanti e vocali particolari suoni o rumori. Il tic-tac, per esempio, riproduce il ritmo dell’orologio; il patatrac indica il rumore di qualcosa che cade e si rompe; il din-don il suono della campana; il bau-bau l’abbaiare del cane; il miao il miagolio del gatto e così via.
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