Fare il becco all'oca
Ci auguriamo che la maggioranza dei nostri lettori — che da tempo sono in quiescenza — possano (possa, per i puristi) dire, con la massima onestà, di avere sempre fatto il becco all'oca, ovvero di aver sempre portato a buon fine il lavoro loro affidato. Questo è, infatti, il significato della locuzione, probabilmente poco conosciuta e, per tanto, poco... adoperata.
Il modo di dire si usa con una certa enfasi e con un senso di soddisfazione. Per questo ci auguriamo che siano molti i lettori che lo hanno sperimentato sulla propria pelle. Ma veniamo all'espressione per spiegare la quale ciascuno narra la propria storiella, nessuna però convincente. Noi riportiamo quella — a nostro avviso — più credibile narrata da uno dei “notisti" al “Malmantile racquistato", Paolo Minucci.
Questi, dunque, rende nota la storia cantata da Francesco Cieco di Ferrara nel poema il “Mambriano": «Gli indovini avevano predetto a Licarno, re di Cipro, che sua figlia Alcenia sarebbe diventata prima madre e poi sposa. Il sovrano, al fine di scongiurare questa predizione ed evitare, così, il disonore che sarebbe caduto su di sé e sulla sua famiglia, fece costruire un immenso giardino con le mura molto alte e una torre.
Dentro la fortezza aveva libero accesso soltanto la governante. Un bel giorno, durante un convivio, un giovanotto ricchissimo, certo Cassandro, figlio del conte Giovanni di Famagosta, fu informato della cosa e disse che con i soldi lui poteva permettersi tutto (corsi e ricorsi storici, ndr). Licarno, allora, lo sfidò e gli promise che se avesse conquistato il cuore di Alcenia entro un anno gliela avrebbe data in moglie; diversamente lo avrebbe fatto decapitare.
Il giovane rampollo non si perse d'animo: si fece costruire una mastodontica oca meccanica, perfetta in tutto, priva, però, del becco. Introdottosi tramite questa nella torre, tra un gioco e l'altro, fece il becco all'oca; poi tornato davanti al re Licarno gli disse che sua figlia era madre prima che sposa. A riprova del 'fatto' fece portare davanti al re l'oca meccanica.
Il sovrano, meravigliatissimo, esclamò: “È fatto il becco all'oca!”. Cassandro, allora, entrò dentro il finto animale per dimostrargli come era riuscito a eludere la stretta sorveglianza e a introdursi nottetempo nella torre. Licandro premiò l'astuzia del giovanotto dandogli in sposa sua figlia incinta».
Conclude il Minucci: «È da questa trasformazione di Giove in Cigno che è nato il proverbio “è fatto il becco all'oca”, che significa... il negozio è fatto o perfezionato».
Dettagli... e non solo
Dalla dott.ssa Ines Desideri riceviamo e volentieri pubblichiamo.
A mio avviso le locuzioni anche se e se anche non possono essere adoperate indifferentemente. Nella frase «Se anche tu volessi sparire sei già stato avvistato» mi sembra inevitabile che anche tu sia inteso come tu compreso, se anche tu (come altri/insieme ad altri) volessi sparire. Poiché il significato non è quest'ultimo, ritengo che sarebbe stata da preferire la forma Anche se tu volessi sparire.
Possiamo esprimere la stessa considerazione per la frase «e se anche spogliarsi non fosse necessario non ci va più di mescolarci e di stringere quel vincolo»: anche spogliarsi, in aggiunta a quale altra azione (già compiuta)? — verrebbe da chiedersi. Meglio, dunque, «Anche se spogliarsi non fosse necessario», «quelli stessi che li sottomettevano»: grave errore, come sappiamo, poiché il pronome dimostrativo che precede stessi deve essere sempre quegli, non quelli.
Eppure siamo in presenza di un errore piuttosto frequente, giacché mi è capitato di incontrarlo più volte, recentemente, e sempre in scritti di carattere letterario. Cito soltanto un altro esempio, tratto da Alla ricerca del tempo perduto (M. Proust — traduzione di G. Marchi): «quelli stessi che sbadigliano». «che vede sempre come uno strumento irritante al quale esigere sempre maggior sforzi»: probabilmente si tratta di un refuso — alla stregua di vedetta anziché vendetta e di «carattere che non ogni tanto non contraddica se stesso», nello stesso libro — ma la preposizione articolata doveva essere dal (quale esigere). «doveva avere una vita così vuota ed era così entusiasta che il maestro gli permetteva di riempirla»: d'obbligo, a mio avviso, l'uso del congiuntivo imperfetto permettesse.
«Avevo la scusante della gioventù, mi dissi.»: qui troviamo un errore molto più frequente di quanto si pensi, nei testi letterari. In frasi di questo genere — nelle quali si esprime un pensiero del passato e solitamente accompagnate da espressioni quali mi dissi, pensai, immaginai — gli autori (o i traduttori) ritengono opportuno l'uso del tempo passato (l'imperfetto avevo, in questo caso), senza considerare che il pensiero, nel momento in cui si presenta, viene formulato nel presente: «Ho la scusante della gioventù, mi dissi.» De gustibus Personalmente preferisco che si adoperi il vocabolo gioventù per intendere i giovani e giovinezza per intendere un'età della vita.
Tornando, dunque, all'ultima frase citata, a mio avviso la forma migliore sarebbe stata «Ho la scusante della giovinezza, mi dissi.»; «se fosse visibile o se si trovasse in indumenti intimi»: una persona in indumenti intimi è visibile. La frase risulta, dunque, banale: meglio presentabile, decoroso, decente, o aggettivi simili.
«La targa non indicava alcuna specialità» «lo si consultava anche per disturbi che non avevano nulla a che vedere con la sua specialità»: qui ci troviamo davanti a un esempio simile a gioventù-giovinezza. Sebbene il vocabolo specialità possa essere adoperato anche in campo medico, perché non preferire specializzazione, che a me — in questo caso — pare più appropriato?
Sorvolo, caro dottor Raso, sull'espressione — da lei aborrita — «nulla a che vedere». «come potrebbe inferirsi da questo ritratto» : non sarebbe meglio «come si potrebbe inferire (dedurre) da questo ritratto»? «goderselo nel qui e ora»: forse l'autore (o la traduttrice) ha voluto ricorrere a un artificio stilistico, ma a me nel qui non piace. Trovo, infatti, più efficace — anche sotto l'aspetto puramente stilistico — «goderselo qui e ora».
E ora, caro dottor Raso, a mo' di ringraziamento per la sua gentile ospitalità, riporto una frase che certamente lei apprezzerà molto: «impegnata nell'esercizio che a quei tempi si chiamava, in Spagna, jogging o footing», non saprei, un paese così negato per le lingue in generale quanto propenso ad appropriarsi di termini altrui che non capisce e neppure sa pronunciare.. Ehm paese lo avrei scritto con l'iniziale maiuscola, poiché la Spagna è una nazione. (Spunti e citazione sono tratti da Così ha inizio il male di Javier Marìas, traduzione di M. Nicola)
Ines Desideri
Prendere riviera
La locuzione che avete appena letto, di uso raro, per la verità e quindi poco conosciuta, ci è stata tramandata dal linguaggio marinaro di un tempo.
Si adopera, naturalmente, in senso figurato e significa essere usciti, finalmente, da una situazione difficilissima e poter riprendere, anzi, poter cominciare una nuova vita più tranquilla e serena della precedente.
Nel gergo marinaro di un tempo l'espressione si adoperava per mettere in evidenza il fatto di essere riusciti ad approdare felicemente ma soprattutto di essere riusciti a riparare in un porto per sfuggire al maltempo e controllare lo stato del natante.
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